La riscoperta dell’ebraicità di Gesù. Un compito non finito

2. La nostra prima scoperta fu l’ebraicità di Gesù, che facemmo in tanti, e anche indipendentemente l’uno dall’altro, come Franca Ciccolo e Renzo Fabris. Una scoperta progressiva arrivata a maturazione per gradi, per quanto mi riguarda. Alla fine appare - con estrema chiarezza e illuminante verità - il fatto che non vi è nulla in Gesù, nelle sue idee, nelle sue speranze, nelle sue certezze, nei suoi obiettivi, nella sua pratica di vita, nei suoi seguaci che non sia ebraico, che non appartenga alla cultura ebraica. Gesù nasce cresce e si sviluppa nella cultura ebraica e nel suo popolo. Dalla cultura ebraica e dal popolo ebraico non è mai uscito. Il concetto di regno di Dio è ebraico, il concetto di Messia è ebraico, la Bibbia, punto di riferimento culturale essenziale per Gesù, è un prodotto culturale ebraico. Lo stesso concetto di Dio di Gesù è ebraico. Il suo stile di vita è tutto radicato all’interno della vita dei villaggi ebrei della Terra di Israele e del loro simbolismo. Terra di Israele e Gerusalemme costituiscono l’orizzonte di Gesù, un orizzonte tutto ed integralmente ebraico.

La conseguenza è che Gesù non voleva fondare una religione diversa da quella ebraica. E di fatto non ha fondato una religione diversa da quella ebraica. Da queste due affermazioni nasceva inevitabilmente una questione enorme e ineludibile: quando nasce il cristianesimo, visto che Gesù non lo ha fondato? E perché nasce? In che misura il cristianesimo è infedele a Gesù? Se Gesù non voleva fondare il cristianesimo è inevitabile domandarsi in che misura sia infedele a Gesù che non lo voleva.

Una parte della nostra generazione ha voluto affrontare questa fondamentale questione che nasce dal fatto che il cristianesimo da un certo momento in poi si pone come religione non solo diversa, autonoma, ma anche opposta a quella ebraica.

Alcuni hanno voluto risolvere la questione sostenendo che esistono due vie di salvezza: la prima, rappresentata dall’alleanza sinaitica, ha per oggetto il popolo ebraico, mentre i non-ebrei, i Gentili, si salverebbero mediante la nuova alleanza rappresentata dal cristianesimo. In questo modo non si renderebbe necessaria una riforma del cristianesimo. L’ebraismo rimane com’è, il cristianesimo anche. Solo che gli ebrei non hanno bisogno di convertirsi al cristianesimo per salvarsi nell’aldilà. Questa soluzione non mi ha mai convinto perché non risponde al problema fondamentale che deriva dal fatto che Gesù non voleva fondare una nuova religione e neppure ha mai parlato di una strada di salvezza particolare per i non-ebrei.

Si ritorna perciò alla questione iniziale: visto che Gesù non ha voluto una nuova religione, quando è nato il cristianesimo? E in cosa esso è infedele a Gesù? Per rispondere a queste domande bisogna però sapere cosa è il cristianesimo, come lo si definisce. Se non si ha chiaro in mente cosa sia il cristianesimo non è possibile porsi la domanda quando esso nasca.

Di fronte a questo problema, molti esegeti e storici cristiani hanno percorso strade diverse ma convergenti per sostenere la continuità tra le forme attuali di cristianesimo e Gesù. La prima strada è consistita nel sostenere che Gesù, pur rimanendo all’interno del giudaismo, aveva però introdotto delle critiche alla legge giudaica e aveva rotto con tutta una serie di pratiche religiose giudaiche cosicché aveva posto le basi per un superamento del giudaismo già di fatto superato dalla sua pratica di vita e dalla sua dottrina. A sostegno di questa teoria molti esegeti cristiani hanno pensato che vi siano diversi atteggiamenti di Gesù, ad esempio il suo comportamento verso il sabato, la critica di Gesù a certe teorie giudaiche circa la purità, il rifiuto di Gesù del ripudio maschile della moglie, la presunta convinzione di Gesù di possedere un’autorità superiore a quella della legge sinaitica. In realtà, gli studi posteriori agli anni Cinquanta del secolo XX hanno mostrato che Gesù non contesta mai teoricamente la norma biblica del riposo sabbatico né la infrange praticamente, ma soltanto sostiene che è possibile compiere azioni buone e utili anche di sabato, soprattutto guarigioni. Circa le leggi di purità bibliche (e in particolare levitiche), Gesù non infrange mai i divieti alimentari giudaici, ma solo sostiene che è possibile mangiare cibo lecito dal punto di vita delle norme di purità bibliche, senza essersi purificati in precedenza le mani con lavaggio di acqua. Non c’è alcun dubbio che Gesù, anche rispetto a Giovanni il Battezzatore, diminuisca notevolmente l’importanza e la centralità del tema della purità fisica, ma ciò avviene a favore di altri valori biblici giudaici considerati più rilevanti, quali l’amore del prossimo, la giustizia e il ritorno a Dio, l’ospitalità. Il distacco da certe norme di purità bibliche avviene dopo la morte di Gesù nelle generazioni successive e tra quei seguaci di Gesù che non erano ebrei. La contestazione di Gesù del ripudio maschile della moglie avviene all’interno del mondo religioso giudaico per affermarne le basi essenziali. Si serve di valori giudaici, si basa su di essi. Non esce dalla cultura giudaica. Gesù fa appello alle basi culturali giudaiche che gli apparivano ultime e più fondanti, contro interpretazioni che gli apparivano non rispettate. Tutta la sua azione è una conferma e una radicalizzazione del giudaismo, non un suo superamento o negazione. Anche le presunte affermazioni di Gesù di possedere un’autorità superiore alla legge sono state giustamente valutate come espressioni di un’interpretazione della legge giudaica per poterla più fedelmente rispettare, non per superarla o per fondare una nuova legge autonoma su base di una presunta rivelazione divina superiore a quella sinaitica. Si è detto che il concetto di Dio di Gesù supera quello giudaico perché è tutto concentrato sulla misericordia divina, dimenticando che una delle più orribili affermazioni della vendetta divina si trova proprio nel Vangelo di Matteo: il re/Dio distrugge la città dei suoi nemici che avevano ucciso il figlio (aggiunta matteana alla parabola del banchetto). Si è detto che Gesù fonda un universalismo mentre il giudaismo sarebbe particolaristico e nazionalistico, dimenticando che l’universalismo non consiste nell’imporre a tutti la propria verità particolare, ma nella presenza ineffabile e non concettualizzabile di valori comuni all’interno di ciascuna tradizione particolare. L’universale è all’interno di ciascun essere umano e ciascuna cultura e non al di sopra come un’entità che solo qualcuno possiede ed impone. Si è detto che il messianismo di Gesù sarebbe spirituale e quello giudaico politico, dimenticando che l’idea del regno di Dio diventa talmente potente nella sua dimensione politica nelle chiese cristiane da portare le chiese ad identificarsi con il regno di Dio in terra e a pretendere un dominio politico più o meno diretto più o meno indiretto (si ricorderà la bellarminiana potestas indirecta in temporalibus così influente fino ad oggi).

La seconda strada percorsa per affermare la continuità dei molteplici cristianesimi storici con Gesù è stata quella di sostenere che la cristologia e l’assetto dogmatico del cristianesimo dei secoli IV-VI, pur essendo molto lontani da Gesù, hanno il proprio inizio in Gesù stesso. Si tratta dei molti studi di esegeti cristiani sulle cosiddette origini pre-pasquali della cristologia. Si è così tentato di sostenere che Gesù predicava - è vero - l’avvento futuro del regno di Dio, ma il regno era già realizzato in lui stesso e nella sua azione, cosicché il centro dell’annuncio era comunque la sua persona e il suo potere superiore a qualsiasi altro. In realtà, la questione è molto controversa perché l’affermare che l’azione di Gesù è segno dell’arrivo del regno non fa che confermare il fatto che il regno è futuro. L’azione di Gesù è solo una garanzia che il regno verrà. E poi una cosa è dire che Dio assiste un uomo che è suo messaggero, agendo volta a volta in lui con il suo potere divino, altra cosa è dire che questo Gesù è una persona in cui sussiste una natura divina. Si è poi tentato di dire che il mangiare insieme di Gesù con i peccatori sarebbe un segno del suo potere di perdonare i peccati, un potere soltanto divino. In realtà, la concezione gesuana del perdono dei peccati è chiaramente espressa nel Padrenostro: Dio concede il perdono solo a condizione che gli uomini si perdonino fra loro e non vi è alcuna funzione mediatrice o salvatrice di Gesù in questo: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” (Mt 6,12). Si disse anche che il fatto che Gesù osasse chiedere ai suoi discepoli il distacco assoluto dai doveri familiari e in particolare dal dovere di onorare il padre e la madre previsto dai 10 comandamenti biblici costituisse la dimostrazione della sua autorità superiore alla legge sinaitica e quindi l’aggancio primo per gli sviluppi cristologici successivi. In realtà, si trattava soltanto di una dialettica tra movimento e strutture familiari patriarcali. Si è affermato innumerevoli volte, come fosse cosa assolutamente certa, che Gesù aveva un’idea di Dio come abba (papà), e non come padre, il che indicherebbe una figliolanza e un’intimità assoluta che si fonda sulla sua essenza ontologica di Figlio. Ma in realtà, l’esperienza dell’intima figliolanza rispetto a Dio padre è tipica di molte figure ebraiche concentrate radicalmente su Dio e convinte da essere da lui accettate, assistite o scelte.

Questi tentativi – si dice spesso - erano nati dopo che Ernst Käsemann in un articolo celebre del 1953 aveva mutato l’orientamento della scuola bultmanniana aprendo la possibilità di una continuità tra cristologia post-pasquale e Gesù storico. Questa svolta, che ha una natura essenzialmente apologetica, doveva essere accolta con grande favore dall’esegesi cattolica degli anni Sessanta e Settanta, proprio per questa sua valenza apologetica e conservatrice cioè di legittimazione delle teologie cristiane successive a Gesù.

Una grande ondata di studi sull’ebraicità di Gesù, che si è però espansa ovunque negli anni Settanta e Ottanta (e che non si esaurisce affatto nel Jesus Seminar né può essere chiamata “terza ricerca”), ha radicalmente contestato tutta questa visione delle cose (ne ho già anticipato molte conclusioni) rendendo a mio avviso inutilizzabile tutta l’impalcatura di argomentazioni che dovevano indicare una presunta frattura di Gesù col giudaismo e un inizio della cristologia post-pasquale nel Gesù storico. E’ perciò comprensibile che questa ondata di studi abbia notevolmente preoccupato gli esegeti cristiani che volevano legittimare le teologie cristiane successive a Gesù. Il dibattito si accese molto intensamente, ma fu recepito con lentezza in Italia perché le case editrici cattoliche avevano concesso ben scarsa circolazione ai nuovi studi esegetici. Esse diedero invece voce agli esegeti conservatori stranieri che avevano reagito agli studi nuovi sull’ebraicità di Gesù (si veda l’ampia risonanza concessa ad esempio a James Dunn e a Wright).

Una terza via, consistette nel cercare di capire a quale giudaismo Gesù appartenesse. Qui le cose si complicano e non sono state ancora risolte. La tendenza cristiana apologetica, che tende a sottolineare il fatto che il cristianesimo non innova rispetto a Gesù, ma è in continuità rispetto a lui, ad un certo punto, soprattutto in Italia, ha scelto a volte la strada secondo la quale l’ebraismo tardoantico, medievale e moderno, quello “rabbinico” per intendersi, sarebbe erede non dell’ebraismo in genere, ma solo di una corrente particolare, combattuto aspramente da un’altra corrente, quella del giudaismo cosiddetto “enochico”, di cui Gesù sarebbe erede. Il pericolo è che si pensi che il cristianesimo sia erede del più puro ebraismo, che sarebbe quello enochico ed essenico, mentre l’ebraismo di oggi sarebbe erede di un altro ebraismo, quello rabbinico.

Contro questa tendenza, a mio avviso, sta soprattutto il fatto che Gesù difficilmente può essere incasellato in una corrente (enochica, essenica, proto-rabbinica, zelotica, ecc.) e rappresenta una propria versione originale e innovativa dell’ebraismo. Gesù non è un epigono, ma un creatore. Gesù poi non è un teologo, un pensatore astratto e non va esaminato prevalentemente con i metodi della storia del pensiero e delle idee. L’unica cosa certa che abbiamo sul background religioso di Gesù è che egli fu legato a Giovanni il Battezzatore e i tentativi di ricondurre il Battezzatore nell’ambito dell’enochismo o dell’essenismo non sono convincenti. Soprattutto Gesù si stacca dal Battezzatore sulle tematiche della purità e dello stesso battesimo. Flavio Giuseppe, che parla sia di Giovanni il Battezzatore sia di Gesù, non riconduce affatto nessuno dei due all’essenismo, di cui è perfettamente al corrente. Francamente, vedo sullo sfondo di questa operazione una delle tante forme di apologetica. Gli antichi autori ecclesiastici, dopo la svolta costantiniana, ad esempio Eusebio, sostenevano che il cristianesimo era erede non del giudaismo mosaico ma della religione dei Patriarchi biblici. Soprattutto il cristianesimo non è erede del giudaismo di Gesù o di qualsisisi branca del giudaismo di quel tempo, perché nasce quando i seguaci di Gesù non sono più nella maggioranza ebrei, marginalizzano gli ebrei seguaci di Gesù e fondamentalmente adattano il messaggio di Gesù alla cultura greco-romana degiundaizzandola. Giustino è un esempio tipico di questo processo.

Soprattutto, all’impostazione, che io giudico apologetica, soggiace spesso uno schema mentale per il quale il cristianesimo dovrebbe necessariamente essere l’esito dell’ebraismo. Si tratta dell’antica idea che vede il rapporto tra ebraismo e cristianesimo alla luce dello schema promessa-compimento, profezia-realizzazione della predizione. Un processo ad imbuto che deve necessariamente, provvidenzialmente, culminare nel cristianesimo. È un procedimento che dà per certa la conclusione fin dall’inizio del ragionamento. È un modo di pensare per il quale il senso di un evento sta negli eventi che lo seguono. Una storia a ritroso. In sostanza, una “invenzione” di una tradizione, come ha giustamente mostrato M.Sachot.

3. Un ultimo punto. Il lavoro incompiuto di una parte della mia generazione è un “ritorno alle fonti” veramente radicale: un ritorno a Gesù e soltanto a lui. Una parte della grande teologia cattolica che ha operato la svolta del Concilio Vaticano II ha proposto per superare la teologia scolastica e la controversia cattolico-protestante di età moderna il cosiddetto “ritorno alle fonti” che mi sembra non integrale e radicale, ma solo parziale. Lo schema teologico che aveva permesso la grande svolta del Concilio Vaticano II si era spesso basato, infatti, sull'affermazione che il sistema teologico tridentino dovesse essere superato non in base a un'esigenza di cambiamento rivoluzionario, ma in base a un maggiore rispetto dell’integrale tradizione ecclesiastica. La teologia che soggiace al Concilio Vaticano II è solo moderatamente innovatrice. Essa propone come criterio di verità ultimo non il messaggio di Gesù nudo e crudo, ma il messaggio di Gesù così come è stato interpretato dalla chiesa antica dei quattro grandi concili. La parola d’ordine era “ritorno alle fonti”, ma le fonti erano costituite dalla tradizione antica non dalla Bibbia né tanto mento dalla figura storica di Gesù.

Ora, invece, l'esegesi storica portava più a fondo il confronto rimettendo in luce, nella loro fisionomia storico-religiosa, gli stessi primissimi inizi: Gesù e la Chiesa primitiva. Anche la Chiesa antica, che era stata il punto di riferimento centrale dello schema del ritorno alle fonti, era, in questa prospettiva storica più rigorosa, sottoposta al medesimo confronto dialettico. La nostra esegesi storica andava perciò nel senso di un più integrale ritorno alle fonti. Ben presto cioè alcuni di noi compresero che lo schema del ritorno alle fonti della chiesa antica era solo una riforma a metà che lasciava insoluti i due gradi problemi: quello posto dal principio protestantico del primato assoluto della parola di Dio sulla chiesa e quello moderno ed umanistico del primato della ricerca storica per appurare come i fatti si erano svolti o potevano ragionevolmente essere ricostruiti. Era necessario un più autentico e radicale ritorno al messaggio di Gesù integralmente ricondotto al suo ambiente ebraico.

Questo superamento dello schema del ritorno alle fonti della Chiesa antica per un più radicale confronto con le origini di Gesù e del primissimo cristianesimo porterà ad una forte divaricazione nella teologia cattolica degli anni Settanta. La strada forse più seria fu percorsa ad esempio da H. Küng e E. Schillebeeckx. Di quest'ultimo è esemplare “Gesù, la storia di un vivente”. La particolarità dell'opera non è data solo dalle tesi esegetiche su Gesù, quanto dal fatto di voler fondare una cristologia (la dottrina teologica su Cristo) solo sui dati che la più rigorosa ricerca storica ritiene indubitabili. Di fronte a questo esito radicale, la teologia cattolica degli anni Settanta si divaricò. Si manifestò una reazione opposta che, pur senza negare il rigore della ricerca storica, riteneva necessario e possibile coordinarla con gli orientamenti teologici del magistero ecclesiastico.

Il cinquantennio trascorso dal 1965 ad oggi ha evidenziato con molta chiarezza la difficoltà di tenere insieme le due fondamentali esigenze che l'età della Controriforma aveva lasciato inappagate: l'esigenza di tener conto dei risultati e dei metodi della ricerca storica e delle scienze moderne e l'esigenza di utilizzare la Bibbia, all'interno della fede, come fonte per la vita religiosa. La Chiesa Cattolica si trovava a portare a soluzione due diversi ordini di problemi, e i tentativi di soluzione di ambedue implicavano il confronto con questioni e con sedimentazioni secolari.

Circa il problema della coordinazione tra ricerca storica sul testo biblico e uso religioso della Bibbia nella Chiesa, i grandi maestri dell'esegesi cattolica dell'ultima generazione erano consapevoli della differenza tra esegesi storica e teologia biblica e la consideravano legittima, anzi doverosa. In una prima fase del dopo concilio, probabilmente fino alla fine degli anni Settanta, la soluzione prevalente fornita dagli esegeti è forse quella teorizzata da A. Descamps, un biblista di Lovanio che era fondamentalmente fedele al metodo storico nella lettura della Bibbia. La preoccupazione per l'ortodossia non spinge affatto Descamps (membro della Commissione Biblica dal 1967 e consigliere di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II) al sospetto verso una rigorosa esegesi storica o addirittura alla negazione della sua legittimità per i testi biblici. Il suo intento è quello di combattere «i risultati [...] ibridi» «di un'ermeneutica mezzo storica e mezzo teologica della Bibbia». L’accordo tra l’esegesi storica e la teologia della chiesa poteva essere ottenuto attraverso una difficile distinzione tra esegesi biblica e teologia biblica. L'esegesi storica considera il testo come frutto di un autore umano stimolato da un preciso contesto religioso e sociale, nella sua diversità storica rispetto a qualsiasi altro testo, compresi quelli contenuti nel canone. La teologia biblica invece considera ogni singolo testo biblico in quanto parte di un canone, quello neotestamentario, cioè di un insieme di scritti in cui si manifesta la rivelazione di Dio e che perciò posseggono unità di senso, posto che provengono da un medesimo autore divino.

L’equilibrio difficile non poteva essere mantenuto a lungo. La ricerca storica evidenziava in modo inequivocabile che Gesù e il primissimo cristianesimo avevano concezioni religiose, istituzioni e prassi molto diverse non solo dalla Chiesa attuale, ma anche dalla Chiesa antica. Una teologia e una vita religiosa che volessero basarsi perciò sulla Bibbia entravano inevitabilmente in confronto dialettico con gli assetti ecclesiali in vigore.

Il compito incompiuto della nostra generazione è dunque un ritorno integrale – e non parziale e apologetico - alle fonti: un ritorno a Gesù e soltanto a lui, al Gesù ebreo, alla sua pratica di vita radicale e all’ebraismo. Ma questo richiede una riforma altrettanto radicale della teologia cristiana (non solo cattolica, ma anche protestante). D’altra parte la riscoperta dell’ebraicità di Gesù sta al cuore della modernità, come ci dimostra già nel 1593 “Il rafforzamento della fede” dell’ebreo caraita Isacco di Troki che sosteneva chiaramente non solo l’ebraicità di Gesù ma negava anche che Gesù avesse voluto abolire la legge mosaica e fondarne un’altra.

 


[1] Chi vuole può trovare alcune giustificazioni delle affermazioni di queste pagine nella bibliografia indicata in www.mauropesce.net.