Modernità e cristianesimo, su un libro di T.Gregory
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- Pubblicato Mercoledì, 19 Settembre 2012 19:49
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L’esame scientifico della natura e la caduta del sacro. L’ importanza del cristianesimo per il pensiero filosofico nel libro di Tullio Gregory, Speculum naturale. Percorsi del pensiero Medievale (Raccolta di studi e testi, 235) Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007.
1. Dico subito che le mie riflessioni, necessariamente, dovranno avere a volte dei toni autobiografici. Il primo corso che frequentai all’Istituto di Filosofia dell’Università di Roma, insieme ad altri studenti di allora divenuti poi docenti universitari di filosofia (come Marcella D’Abbiero, Maria Vittoria De Filippis, Marta Fattori, Giorgio Stabile e tanti altri) fu quello di Storia della filosofia medievale tenuto da Tullio Gregory. Ebbi poi la fortuna di concludere il mio percorso universitario con una tesi consigliata e diretta da lui sul dibattito sorto negli anni Quaranta del Novecento attorno alla cosiddetta Nouvelle Théologie, un dibattito che aveva al centro alcuni studiosi del pensiero medievale di cui il libro Speculum naturale tratta a fondo in diverse occasioni.
In questo libro, del resto, ritornano aspetti fondamentali di metodo che noi, come suoi allievi, abbiamo imparato da Gregory fin dai primi anni. Gregory ci instillava una diffidenza verso i concetti storiografici troppo generali e onnicomprensivi, considerati perniciosi per la comprensione sia dei testi sia del pensiero dei singoli autori. La comprensione storica doveva essere attenta alla fisionomia propria, effettiva, di ogni singolo testo, pensatore e fenomeno. L’idea di una successione necessaria di caratteristiche epocali, definite da concetti generali che descrivono il susseguirsi di periodi, concepiti in necessario progresso, era costantemente criticata. Si trattava di prendere le distanze sia dalle schematizzazioni e generalizzazioni storiche del positivismo, sia da quelle neoidealistiche o teologico-provvidenzialistiche. Un’attenzione così concentrata sulla comprensione
di ogni singolo pensiero personale, alla ricerca della sua specificità, nel tentativo di definirlo nella sua fisionomia con concetti propri e particolari, con concetti che emergano dall’interno del suo stesso pensiero e non dall’esterno di categorie a priori, non doveva però portare ad una forma di scetticismo sterile o di incapacità di rendersi conto di tendenze più generali e di caratteristiche storiche condivise e fondamentali. Una caratteristica del metodo di analisi storica di Gregory è, infatti, anche la costante percezione della distanza e della discontinuità tra “modi di pensare” che introducono a volte svolte fondamentali e differenze culturali più generali di altre, una caratteristica questa che diventa, ad esempio, cruciale nel saggio su “Pensiero medievale e modernità” (pp. 173-195). La necessità di elaborare concetti anche di carattere generale e di proporre la comprensione di modi di pensare che introducono diversità, distanze e discontinuità epocali qui si pone come esigenza insopprimibile. Qualcosa che possa essere definito “moderno” esiste ed è qualcosa che stabilisce appunto una distanza e una discontinuità. Ma, se non mi sbaglio, Gregory è più interessato alla individuazione delle caratteristiche concrete di ciò che instaura o provoca la distanza piuttosto che alla definizione del concetto generale astratto.
Il punto fondamentale, mi sembra, è che le discontinuità coesistono in un medesimo tempo e luogo, non si succedono l’una all’altra, quasi che il nuovo che nasce si sostituisca al vecchio che perciò scompare. La modernità definisce così una svolta fondamentale nel modo di pensare, ma non la caratteristica di un’epoca concepita temporalmente. Il modo di pensare moderno coesiste, infatti, con modi di pensare precedenti che, nello svolgersi dei secoli, non solo permangono (volta a volta ovviamente in modi diversi), ma anche possono prevalere su ciò che definiamo “moderno”. Come Gregory scrive «non sono possibili nette cesure». E tuttavia questo riconoscimento non porta all’annullamento della percezione della diversità, della distanza e della discontinuità. Infatti, «sarebbe fuorviante tentare di riempire con infinite schede la distanza che separa le espressioni del pensiero medievale dalle varie forme del pensiero moderno che proprio su quella distanza ha costruito la coscienza della modernità» (p. 176) (sottolineatura mia).
2. La ragione di questa attenzione forte di Gregory alla coesistenza delle differenze, in un medesimo contesto culturale e temporale, sta, forse, nella sua costante riflessione sulla permanenza del cristianesimo in tutte le epoche del pensiero filosofico fino all’età contemporanea compresa. Dall’insegnamento di Gregory nel suo complesso credo si debba trarre la conseguenza che non si può fare storia della filosofia senza fare anche storia del cristianesimo e del pensiero cristiano. Scrive Gregory, a ragione, in un passo che merita la più ampia riflessione:
«Il pensiero teologico in età moderna ha come suoi costanti punti di riferimento le complesse articolazioni medievali che sembrano per certi aspetti esaurire tutte le possibilità del discorso su Dio, e spesso ne riprende e privilegia alcune componenti: non solo il momento apofatico - soprattutto per la sua forza di rottura rispetto alle categoria intellettualistiche - ma l’esegesi simbolica e l’intelligenza spirituale - per ricuperare perdute dimensioni della riflessione teologica - e ancora la prospettiva storico-escatologica fino alla teologia della speranza: segni tutti della forte presenza delle varie forme di spiritualità patristica e medievale nel moderno» (p. 194).
In questo modo, Gregory propone di fatto una nuova visione della storia della filosofia, che non può fare a meno di tenere conto dell’evoluzione del pensiero cristiano e di come questo pensiero cristiano abbia stimolato e nutrito per suggestione o reazione la riflessione filosofica per secoli fino ad oggi. Le iniziative culturali di Gregory, come quelle del Lessico intellettuale europeo, non si sono mai stancate di proporre agli storici della filosofia la necessità di una conoscenza del pensiero cristiano e del suo nucleo fondante: la Bibbia. Ed è per questo del resto che, almeno per il periodo medievale, egli propone «la scelta del sintagma “pensiero medievale”» per
«evitare l’incertezza del termine filosofia… che si presenta in contesti che vanno, come è noto, dalla philosophia Cristi alla philosophia Aristotelis. Riteniamo che con il termine “pensiero” … si possano indicare i “modi di pensare”, la varie forme di conoscenza, le visioni del mondo e dell’uomo, nate nel contesto storico dell’esperienza cristiana…» (p.173).
Del resto, dall’impostazione di Gregory discende anche la possibilità di una diversa visione della storia del cristianesimo stesso, intesa non più solo o prevalentemente come storia delle dottrine teologiche o dogmatiche, delle istituzioni ecclesiastiche e del rapporto tra chiese, o anche dello stesso vissuto cristiano, quanto piuttosto come storia dei rapporti tra l’esperienza dei diversi cristianesimi e le culture nelle quali si è trovato a vivere.
In Speculum naturale è del resto fondamentale anche un altro fattore della permanenza che determina la continuità o i ritorni periodici di atteggiamenti e tesi teoriche: si tratta della permanenza delle istituzioni. Sono le istituzioni, ad esempio, che assicurano la permanenza della scolastica:
«Sono soprattutto le istituzioni - le università e i grandi collegi degli ordini mendicanti e dei gesuiti - ad assicurare una continuità e una presenza nei tempi moderni delle varie forme della Scolastica, soprattutto attraverso gli autori e i manuali della seconda Scolastica; peraltro anche i testi di base per l’insegnamento nelle varie facoltà, fin entro il Settecento, restano quelli fissati negli statuti medievali…» (p.192).
3. Il fattore che determina la distanza, la differenza o la discontinuità tra modi di pensare medievali e moderni è per Gregory la concezione della natura. Mi sembra che sia questa una delle acquisizioni più importanti della lunga ricerca di Gregory. Uno dei risultati più solidi e fondamentali della sua indagine storica. Un risultato e un’acquisizione che mi sembra in grado di determinare tutta una visione dell’evoluzione non solo del pensiero moderno, ma dello stesso modo di concepire il cristianesimo. Qui Gregory mi sembra additi due fasi di questo modo di avvicinarsi alla comprensione e allo studio della natura. La prima fase sta nell’introduzione in Europa della scienza araba e delle concezioni aristoteliche della natura. È una fase del pensiero e della teologia medievale su cui anche la raccolta di saggi Mundana Sapientia[1] aveva a fondo attirato l’attenzione. A questo tema sono dedicati i primi quattro saggi di Speculum naturale (Nature au Moyen Âge, pp. 1-14; Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, pp.15-33; Il Liber creaturarum: Dal Sacramentum salutaris allegoriae alla Physica Lectio, pp. 35-45; Natura e Qualitas Planetarum, pp. 47-68). Secondo la formulazione sintetica del terzo di questi saggi:
Il mondo cristiano accettava ormai fuori di sé una natura, non più tessuto di simboli, ma retta da una propria necessitas, quella della fisica e della metafisica aristotelica» (p. 45).
La seconda fase di distacco dal pensiero medievale e di inizio di una caratteristica certa di modernità è segnata dalla nascita del metodo scientifico per l’analisi della natura:
La definizione di nuovi criteri metodologici (dal Novum Organum di Bacone al Discours de la méthode di Descartes che, pur nella diversità delle loro posizioni, coincidono nel proporre un nuovo metodo, in sostituzione di quello aristotelico-scolastico, per una conoscenza certa della realtà); l’emergere di una teoria della scienza sperimentale e fenomenica tutta legata al sentire - alla ricerca empirica e alla teorizzazione matematica [qui l’allusione al metodo galileiano è chiara]… (p.190).
La differenza tra scienza medievale e scienza moderna è irriducibile:
«… riteniamo senza risultato il tentativo di costituire una linea diretta di continuità fra i logici e i calculatores del tardo Medioevo e Galilei, fra i sophismata calculatoria dei primi e la matematica del secondo; fra le immaginarie ipotesi avanzate disputationis gratia (che lasciano intatte il cosmo fisico di Aristotele) e l’uso galileiano del cannocchiale per esplorare il cielo: nuovo organum, il cannocchiale si imponeva “ob inauditam per aevum novitatem”» (pp.191-192).
Questa novità non è solo fondamentale per la concezione e la pratica di un nuovo metodo scientifico, ma anche per la demolizione di una concezione cosmologica unitaria in cui il cristianesimo si era adattato ad iscrivere le proprie concezioni all’interno della cosmologia aristotelica:
«Non è il sistema aristotelico-tolemaico, ma la sua trascrizione nell’universo cristiano a costituire quel “carcere” denunciato dagli antiaristotelici, dal quale la nuova scienza - superando obiezioni anzitutto teologiche - ha liberato il mondo moderno…» (p. 221).
Non si può sottovalutare l’importanza di queste affermazioni. La fine scientifica della cosmologia aristotelica poneva anche fine ad una teologia che aveva concepito se stessa tutta all’interno del cosmo aristotelico. In un cosmologia copernicana l’ascesa al cielo di Cristo è impossibile perché non c’è più un alto e un basso fissi, posto che la terra non è più concepita immobile e come centro dell’Universo.
«È all’interno di questo universo [aristotelico-tolemaico, scrive Gregory] che ancora alla fine del Cinquecento il dotto Roberto Bellarmino dovrà porsi il problema se Cristo, ascendendo al cielo con il suo corpo si sia fermato sotto o sopra l’ultima sfera (in domo o in tecto), e negli anni Trenta del Seicento il matematico gesuita Cazrée potrà interrogarsi se la fine del geocentrismo non comporti la negazione di tutta la storia sacra» (pp. 220-221).
Un’ulteriore caratteristica della modernità che mi sembra Gregory sottolinei nel suo libro rappresenta a mio avviso un accento nuovo rispetto alle tematiche più consuete della sua riflessione storica. Si tratta di quella che egli definisce «la caduta del sacro»:
«Siamo di fronte non ad un processo di secolarizzazione, ma alla caduta del sacro o più precisamente alla critica e al rifiuto di quelle dottrine, riti, costumi, miti che le chiese, le teologie, le tradizioni popolari avevano incluso nella sfera del sacro, quasi a costituire un patrimonio intangibile dell’uomo cristiano. In questo processo di caduta del sacro che mi sembra caratterizzare la nascita del moderno, assume valore la teoria dell’origine politica delle religioni che riconduce il sacro - e anzitutto i miracoli e le profezie, i suoi miti e riti - invenzioni di abili conduttori di popoli e di capi di stato che stabiliscono il loro potere fondandolo su una fittizia origine divina» (p. 184).
Che non si tratti di secolarizzazione, mi sembra voglia dire che non si tratta di un processo necessario, che abbraccia comunque l’evoluzione della storia nel suo complesso, quanto piuttosto di un atteggiamento, indubbiamente “moderno”, ma non necessario e comunque contrastato e contrastabile. Vorrei sottolineare, forse deformando il pensiero di Gregory, la radicalità di queste affermazioni. Ciò che caratterizza il moderno è di considerare, tramite “critica” e /o “rifiuto”, una serie di elementi culturali, che erano stati considerati “sacri”, non più tali. Che questa critica investa la quasi totalità dell’universo religioso lo dice la serie di fatti indicati da Gregory: «dottrine, riti, costumi, miti», cioè tutti gli aspetti dottrinali e pratici delle religioni. Che questi elementi culturali non siano più considerati sacri significa che la loro origine non è divina, sacra, ma frutto di processi culturali indagabili e spiegabili. Ad includere questi elementi nella sfera del sacro erano state, secondo Gregory «le chiese, le teologie, le tradizioni popolari», in sostanza la totalità delle fonti di produzione religiosa. Mi sembra importante che, in questo contesto, all’inizio del capitolo in cui sono contenute le frasi che ho citato, Gregory citi ancora il celebre libro di Paul Hazard, La crise de la cosciente européenne, del 1935, un libro che anche negli anni Sessanta raccomandava a suoi studenti all’università di Roma, libro oggi riedito a cura di Giuseppe Ricuperati per la casa editrice Utet. In quel libro, mentre si delinea con vigore tutto il complesso incrociarsi di elementi che caratterizzano lo spirito moderno, sono anche costantemente indicati gli ostacoli e gli oppositori della modernità. Ad esempio Richard Simon non vive senza il contrasto oppostogli da Bossuet. Il fatto è che le chiese e le tradizioni religiose continuano ad esistere e la critica razionale necessariamente provoca resistenze e contro azioni, teoriche e politiche.
4. Vorrei infine proporre una mia reazione alle riflessioni di Gregory, per quanto riguarda le rinascite medievali all’interno di vari momenti della modernità e della stessa età contemporanea. Partirò dall’osservazione di Gregory secondo cui la rinascita del tomismo nella neoscolastica cattolica ad opera di Leone XIII si presenta come una riproposizione di un elemento medievale inteso in senso restauratore ed antimoderno, all’interno della contrapposizione frontale tra medioevo e modernità tipica dell’età della Restaurazione. La citazione che Gregory adduce di una frase del Padre gesuita Cornoldi è emblematica di questo modo di percepire la necessità di un ritorno al tomismo:
«la storia delle moderne filosofie altro non è che la storia delle moderne aberrazioni dell’uomo abbandonato alle vertigini del suo orgoglio; tanto che si potrebbe quella storia chiamare: la patologia della regione umana» (p, 176).
Tenuto conto della natura ‘restauratrice’ e ‘reazionaria’ della riproposizione del neotomismo, è certamente storicamente corretta la valutazione storica di Gregory sul significato della teologia e dell’opera storiografica di Henri de Lubac. Gregory valorizza de Lubac in quanto critico efficace del neotomismo e della scolastica contro cui già Erasmo polemizzava:
«Precisamente contro la scolastica nata sotto il segno di Aristotele si rivolge la polemica umanistica - che riscopre non solo un nuovo volto dell’antico, ma anche della patristica greca e latina- mentre si afferma con chiarezza il tema della rinascita, della renovatio, con un nuovo modo di intendere l’uomo, il suo linguaggio, il valore della vita civile, la sua storia, sviluppando temi che possono caratterizzare la nascita del mondo moderno» (p. 177).
«la contrapposizione erasmiana dei padri greci e latini alla telologia scolastica non aveva avuto toni sostanzialmente diversi [da quelli di de Lubac], facendo dei Padri gli “autori” di un pensiero teologico moderno: nei Padri, scriverà Daniélou, si ritova “un certain nombre de catégories qui sont celles de la pensèe contemporaine et que la théologie scolastique avait perdues”» (p.179).
De Lubac, come è noto, riproponeva l’antropologia teologica patristica contro la rinascita quattrocentesca del tomismo in Tommaso de Vio e fu all’inizio di quella fortunata operazione culturale interna al cattolicesimo consistente nella riproposizione della teologia patristica, soprattutto greca, e del metodo dell’esegesi biblica dei quattro sensi. L’attacco deciso di cui egli e i suoi colleghi di Lyon-Fourvière furono oggetto da parte della teologia neoscolastica romana ne è una chiara conferma. Del resto l’ampiezza della proposta teologica di de Lubac non lascia dubbi: dagli studi sul buddismo a quelli su Proudhomme. La sua riproposizione del pensiero patristico, la sua rivisitazione di Agostino, la sua enorme opera sull’esegesi medievale non hanno nulla in comune con una rinascita antimoderna della teologia medievale quale era rappresentata dalla neoscolastica. E tuttavia, esiste a mio avviso un elemento antimoderno nel pensiero di de Lubac che con il tempo si è manifestato a pieno soprattutto nella sua odierna ricezione italiana. Del resto lo stesso de Lubac ebbe nella fase finale della sua vita delle riflessioni critiche verso gli sviluppi ecclesiastici legati alla teologia e alla ricezione del Concilio Vaticano II. Differente fu invece la posizione di un altro grande medievista cattolico il Padre Marie-Dominque Chenu che mantenne sempre un atteggiamento coerente rispetto alla necessità di un nuovo rapporto tra la chiesa cattolica e il mondo moderno.
Il punto forse centrale della questione sta proprio in quello che Gregory con straordinaria lucidità ha indicato da tempo e non si stanca di approfondire e ripetere: la modernità aveva operato un distacco del messaggio cristiano dal sistema culturale, scientifico e filosofico dell’aristotelismo. Ma la scienza moderna proponeva una visione del mondo in tutti i suoi aspetti profondamente rinnovato: dalla fisica all’astronomia, dalla geologia, alla fisiologia. Questo doppio prodotto della modernità, distruttivo e costruttivo, implicava la necessità che la teologia cristiana non solo si distaccasse dall’aristotelismo, ma anche si riconfigurasse in rapporto alla nuova visione del mondo. Era necessaria una riforma della teologia. La proposta di un ritorno alle fonti patristiche, come base per la costruzione di una nuova sintesi teologica, era in realtà solo la proposta di una fase preparatoria, ma non l’elaborazione di una teologia moderna. Questa riforma della teologia in realtà è avvenuta solo molto a stento. Forse solo Hans Küng si è realmente impegnato in un tentativo di riforma radicale della teologia cristiana che tenga conto della modernità. Henri de Lubac, a mio avviso, proponeva, sì, un ritorno alla patristica, ma il suo impianto teologico filosofico è troppo debitore della filosofia di Maurice Blondel con la sua teoria del desiderio naturale del soprannaturale. Ne risulterebbe che il grande libro di de Lubac, Surnaturel (1943), pur condannato dall’autorità ecclesiastica, conteneva certo una critica all’idea scolastica di pura natura, ma rifiutava con ciò, almeno implicitamente, la caratteristica tipica della modernità, così come Gregory la intende, determinata cioè dall’introduzione di un concetto autonomo di natura. Da qui un ineliminabile elemento antimoderno, che coesiste a mio avviso con la proposta certamente innovativa del grande gesuita.
[1] T. Gregory, Mundana Sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale (Storia e Letteratura. Raccolta di Studi e Testi, 181), Roma Edizioni di Storia e Letteratura, 1992. Cfr. la mia recensione in Annali di Storia dell’Esegesi 10 (1992) 177-179.