Ebraismo e Novecento - una e una riflessione

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Dal sito dell'Uninione delle comunità ebraiche italiane

 "La Chiesa ha recentemente ribadito, in modo inequivocabile, che l’obiettivo della conversione degli ebrei non è venuto meno”

“Ebraismo e Novecento” - Alla scoperta di un secolo
che ha trasformato l’identità ebraica


Ebraismo e Novecento - Francesco LucreziNella moltitudine di iniziative editoriali che si sono recentemente occupate di ebraismo e cose ebraiche, spicca “Ebraismo e Novecento - Diritti, cittadinanza e identità”, ultima fatica di Francesco Lucrezi, docente di Storia del diritto romano dell’Università di Salerno. Il volume, pubblicato dalla “S.Belforte & C. Editori librai dal 1805” e presentato nelle scorse settimane a Livorno con il patrocinio della Comunità ebraica locale, ricostruisce le recenti vicende del popolo eletto ed offre numerosi spunti di riflessione su tematiche delicate ed estremamente attuali nella sempre più multietnica Europa, come laicità delle istituzioni e dialogo interreligioso
Professor Lucrezi, ci parli un po’ del suo ultimo libro. Come nasce? Cosa vi si racconta?
Si tratta di una raccolta di saggi e testi di relazioni che ho avuto modo di elaborare negli ultimi anni in diversi contesti. Alcune linee di fondo collegavano i vari contributi dedicati, in vario modo, ai mutamenti intervenuti nel corso del Novecento sull’identità ebraica, con particolare riferimento agli aspetti dei diritti e della cittadinanza. L’idea di riunirli e ripubblicarli in una nuova versione unitaria, aggiornata e modificata, è nata parlando con l’editore Guido Guastalla in occasione del Moked di Forte dei Marmi del maggio 2008, dove ero stato invitato a tenere una conferenza. Ringrazio molto l’amico Guastala dell’opportunità concessami, perché il libro mi sta dando delle grandi soddisfazioni. Mi ha permesso di mettere ordine fra le mie idee e mi pare che risulti gradito anche ai miei studenti.
Quando ha avuto origine il suo interesse per la cultura ebraica? C’è un episodio o una persona in particolare che l’ha spinta ad occuparsene?
Direi da sempre. L’interesse per l’ebraismo mi è stato trasmesso da mio padre, che mi ha insegnato ad apprezzarne il valore non solo nei testi sacri, ma anche nelle arti, nella letteratura, nella scienza moderna. La mia tesi di laurea, discussa nel lontano 1977, fu sulla Giudea nell’impero romano e da allora ho sempre continuato a studiare tematiche dell’ebraismo antico e moderno. Devo dire che non si tratta di solo interesse, ma anche di vero e proprio amore, in particolare per la Terra di Israele, nella quale mi reco in genere ogni anno, e che considero, da non israeliano e non ebreo, una sorta di mia “patria ideale”.
Uno dei capitoli di “Ebraismo e Novecento” è dedicato al modo in cui vengono affrontati, in Italia e in Israele, il tema della laicità e quello della libertà di culto. Quali sono, secondo lei, le principali differenze tra i due paesi?
E’ difficile fare un paragone perché le situazioni sono molto differenti. In Italia, come è noto, c’è il problema di una forte influenza sulla vita civile da parte delle autorità ecclesiastiche che, a parere di alcuni, io fra questi, arriva spesso a conculcare il principio di laicità. Basta pensare al diritto di famiglia, alle questioni di bioetica, all’ora di religione o all’esposizione dei simboli religiosi. Non si pone tanto, nel nostro paese, un problema di libertà di religione, quanto di libertà dalla religione, ossia di tutela da interferenze e pressioni da parte del clero. Anche in Israele, naturalmente, esistono problemi. Come ad esempio l’assenza del matrimonio civile o le interruzioni obbligatorie nello shabbat. Ma essi sono avvertiti in un modo diverso, per la diversa percezione della dimensione religiosa nell’identità nazionale e anche per l’assenza di un’unica autorità religiosa in grado di esprimere condizionamenti in modo verticistico. Se un rabbino vieta qualcosa, un altro può invece pronunciarsi diversamente. Ma indubbiamente, come ho scritto nel libro, il comune sentimento di accerchiamento e pericolo vissuto da tutto il Paese fa sì che questi problemi non siano considerati una priorità di fronte a emergenze ben più urgenti e drammatiche. Tutti, laici e religiosi, sanno bene di essere, agli occhi dei nemici, una sola cosa. Un Israele finalmente libero dalla paura dei nemici interni ed esterni sarebbe obbligato, con tutta probabilità, a confrontarsi con profonde divisioni al proprio interno. Sarebbe (sarà) un confronto difficile e doloroso ma naturalmente c’è da augurarsi che possa avvenire presto.
Il 17 gennaio papa Ratzinger sarà nel ghetto di Roma per visitare la sinagoga della capitale, un gesto simbolico che dovrebbe rafforzare ancora di più il dialogo, a volte complicato ma tutto sommato proficuo, tra ebrei e cristiani. Sembrano invece persistere alcune grosse difficoltà nelle relazioni diplomatiche tra Vaticano e Israele. Qual è la sua opinione in proposito?
La questione è molto complessa, io distinguerei due livelli. Quello politico-diplomatico e quello sostanziale. Sul primo piano non c’è dubbio sul fatto che la Chiesa Cattolica eserciti ancora un’enorme influenza e che il mondo ebraico, costretto a vivere nella diaspora in condizioni di più o meno precario equilibrio, o in Terra d’Israele, di costante pericolo, abbia tutto l’interesse ad avere con il Vaticano rapporti di amicizia o almeno di buon vicinato. Tuttavia, la storia dei rapporti tra la Chiesa e l’ebraismo è quella che è, non si può fare finta di niente. E’ vero che a partire dal Concilio Vaticano II ci sono stati dei cambiamenti, ma non si può pensare che due millenni di “teologia del disprezzo” possano sparire così, per incanto. Dopo il Concilio, e soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, alcuni coraggiosi pronunciamenti e gesti da parte ecclesiastica hanno creato la sensazione, o l’illusione, che ci si fosse inoltrati in un irreversibile cammino di amicizia e mutua comprensione e che tutti i brutti ricordi potessero essere relegati nel passato. Ma, a mio avviso, questa illusione è venuta meno, sia sul piano del dialogo ebraico - cristiano sia su quello dei rapporti con lo Stato di Israele, col nuovo millennio, già negli ultimi anni del precedente pontificato. La Chiesa ha recentemente ribadito, in modo inequivocabile, che l’obiettivo della conversione degli ebrei non è venuto meno, e ciò significa una sostanziale non accettazione dell’identità ebraica. Certo, da una semplice non accettazione non è detto scaturiscano odio, persecuzioni o altro, ma essa, comunque, resta e resterà una pietra d’intralcio sul cammino di un’amicizia che voglia essere sincera e non soltanto diplomatica.
Un ostacolo molto grosso al dialogo è sembrata la recente firma apposta da Ratzinger sul decreto che riconosce le virtù eroiche di Pio XII...
La questione è complessa, e si presta a diverse considerazioni.
In primo luogo, va detto che il fatto che Pio XII abbia assunto un atteggiamento quanto meno debole di fronte alle atrocità naziste è un dato di fatto storico, che non può essere contestato. La più ricorrente giustificazione dei silenzi di Pacelli, come è noto, consiste nell’argomento secondo cui un intervento pubblico del Vaticano, anziché frenare, avrebbe ulteriormente intensificato lo sterminio in atto nel cuore dell’Europa. Ma è un argomento che non spiega perché, neanche dopo la fine della guerra, e quindi a pericolo terminato, nel pur lungo periodo intercorso fino alla morte del pontefice (9 ottobre 1958), non sia mai arrivato dalla Cattedra di Pietro alcun riferimento a quanto accaduto ad Auschwitz e negli altri campi della morte. E non spiega come mai nessun analogo timore frenò il papa, il primo luglio del 1949, dallo scomunicare comunisti e socialisti, nonostante l’enorme potere di cui all’epoca godeva l’Unione Sovietica. Se solo il Papa avesse combattuto il nazismo con un centesimo dell’energia riservata alla lotta al comunismo! Ed è molto triste che queste considerazioni debbano essere lasciate ai soli ebrei, come se fossero questioni che non debbano interessare l’intera società civile. 
D’altra parte, bisogna anche considerare che una svolta nel rapporto tra ebrei e cristiani si è avuta solo negli anni Sessanta, e che l’antisemitismo teologico è stata una costante nella millenaria storia della Chiesa. Uno dei santi più venerati del cattolicesimo, Ambrogio, per fare solo un esempio, fu violentemente antisemita, al punto da minacciare di scomunica l’imperatore Teodosio, che voleva semplicemente punire i cristiani che bruciavano le sinagoghe. Perché mai Pio XII avrebbe dovuto essere un paladino degli ebrei? C’è anche da dire, poi, che le recenti moltiplicazioni delle santificazioni, giunte durante il pontificato di Giovano Paolo II a cifre esponenziali, hanno assunto un evidente significato di santificazione collettiva della stessa Chiesa, con tutti i suoi vertici. Tutti i papi contemporanei, ormai, sono automaticamente destinati alla venerazione degli altar e il diverso livello di santità viene misurato non attraverso l’esito scontato del processo di canonizzazione ma attraverso la maggiore o minore celerità dello stesso. Da questo punto di vista, ritengo che la beatificazione di papa Pacelli non rivesta, nelle intenzioni ecclesiastiche, uno specifico significato antiebraico. La Chiesa, semplicemente, santifica se stessa. Non può ammettere un suo errore.
Personalmente ho trovato molto più grave la riproposizione, nel  febbraio del 2008, dell’auspicio alla conversione degli ebrei contenuto nel vecchio Missale Romanum tridentino di Pio V, che è stato stigmatizzato dal Rabbino Di Segni come una “tragica regressione”, una “grave pietra di inciampo su qualsiasi forma di dialogo tra cattolici ed ebrei”, e ufficialmente denunciato, in un pubblico comunicato dell’Assemblea Rabbinica Italiana firmato dal presidente Giuseppe Laras, come “una sconfitta dei presupposti stessi del dialogo”, rispetto al quale, pertanto, “si impone quantomeno una pausa di riflessione”. Qualche forma di parziale spiegazione da parte del Vaticano, a mio avviso decisamente insoddisfacente, è arrivata successivamente ma, se un riallacciamento dei rapporti è certamente auspicabile, chiudere l’apparente incidente  di percorso addirittura con un invito al papa nel Tempio Maggiore è stato, forse, un po’ prematuro. Non si è trattato, infatti, di un semplice incidente di percorso, ma di qualcosa di più sostanziale e profondo.   
 
Adam Smulevich