sulla necessità di una riforma della teologia cattolica

Condividi questo articolo

Mauro Pesce

Università di Bologna

Centro Interdipartimentale di Scienze delle religioni

Contatti

 

Il copernicanesimo e la teologia

Perché il “caso” Galileo non è chiuso

 

 

 

 

 

 

1. Mi sono sempre opposto all’espressione “ il caso Galileo” perchè riduce la portata delle questioni in gioco e concentra l’attenzione sulla valutazione di atteggiamenti prevalentemente personali.[1] Il problema che abbiamo di fronte non si riduce a quello della valutazione del comportamento di singole persone o istituzioni: se Galileo fu eccessivamente irruente, se ebbe o no una lettura concordista della Bibbia, se aveva veramente delle dimostrazioni certe per difendere la teoria copernicana, se questo o quell’altro personaggio, se questa o quell’altra istituzione commisero errori di valutazione. Mi sembra che all’espressione “il caso Galileo” sia anche legata un’altra espressione che oggi sento spesso ripetere, quella della “chiusura” del “caso Galileo”. Considerare tutta la questione “un caso”, porta anche a considerare la sua chiusura come se si trattasse semplicemente di capire se ci furono errori di valutazione da questa o da quella parte.

Il fatto è che la condanna del copernicanesimo e poi quella di Galileo del 1633[2] non è un “caso”, ma è invece legata ad un modo strutturale di concepire la Sacra Scrittura, la teologia, la religione e il cristianesimo stesso. Il copernicanesimo, infatti, poneva necessariamente alla teologia cristiana (e non sempre soltanto a quella cattolica) una serie molto vasta di questioni che hanno almeno tre aspetti diversi: 1. quale sia la natura della verità della Bibbia, cioè della rivelazione cristiana; 2. quale sia il legame del credo cristiano con l’astronomia antica; 3. quale sia il rapporto tra cristianesimo e cultura. A questi si aggiunge un quarto problema posto dalla condanna del copernicanesimo: quale sia la validità teologica della condanna del copernicanesimo del febbraio del 1616

 Tutti problemi che sono ben lontani dall’essere chiusi.

continua....



[1] In questo saggio mi riferisco anche a un insieme di miei saggi ripubblicati in M.Pesce, L’ermeneutica biblica di Galileo e le due strade della teologia cristiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, dove si trova anche la bibliografia e la discussione scientifica analitica necessaria, qui omessa per brevità, trattandosi spesso di opere e di argomentazioni note agli specialisti.

[2]La condanna del sistema copernicano da parte del S.Uffizio - come è noto - è del 24.2.1616, l'ammonizione a Galileo del 26.2, la messa all'Indice di libri di Copernico, Stunica e Foscarini del 5.3.1616. Cf. S.M.Pagano - A.G.Luciani, I documenti del processo di Galileo Galilei (Pontificiae Academiae Scientiarum Scripta Varia, 53), Città del Vaticano, 1984, pp. 99-103.

2. Alla fine del Cinquecento, come del resto già da molto tempo prima, l'adesione alla visione tolemaica dell'universo significava anche l'adesione a una visione cosmologica nella quale tutte le concezioni biblico-cristiane erano state inserite coerentemente. Questa visione cosmologica non era solo né primariamente una teoria scientifica, ma una visione sacra e coerente del cosmo nella quale il cristianesimo si collocava organicamente, adempiendo così a sua volta alla funzione di essere una compiuta visione dell'universo. Di questa sintesi complessiva che inquadra la vicenda esistenziale, storica e cristiana dell'uomo all'interno di un cosmo che dall'inferno si estende al paradiso, Dante era un'espressione poetica sublime che in continuazione era fatta oggetto di riflessione e commento. Due lezioni del giovane Galileo nel 1588 dimostrano, caso mai ce ne fosse stato bisogno, che Galileo era partecipe e consapevole di questa sintesi scientifico-religiosa. C'è di più. Poco dopo la redazione delle due lezioni, all'inizio del 1589, Galileo scriveva una prima redazione del De Motu.[1] Essa conteneva un inizio teologico, che però cadde nella redazione finale (1591-92). «Galileo vi esponeva i motivi per cui Dio aveva posto la regione degli elementi, delimitata dall'orbita lunare, al centro dell'universo; e cioè per collocarla il più possibile lontano dalla vista dei beati abitatori celesti nel timore che fossero oltraggiati dalla sua volgarità».[2] Galileo, in sostanza, faceva propria la visione cosmologico-teologica tradizionale. Egli era parte consapevole della cultura religiosa dominante della sua società.

Questo dato di fatto ha però una conseguenza rilevante: Galileo è sempre stato consapevole che lo sconvolgimento nella teoria cosmologica provocata dal copernicanesimo comportava necessariamente uno sconvolgimento anche nella visione cristiana a lui contemporanea del mondo. In particolare, se la terra non era più il centro dell'universo, la localizzazione ormai tradizionale dell'inferno e del paradiso diventava ormai impossibile. Il fatto che Galileo avesse riflettuto così analiticamente alla localizzazione dell'inferno fin dall'inizio della sua carriera (nel 1588 aveva 24 anni), non lascia dubbio: Galileo è stato consapevole delle conseguenze teologiche del copernicanesimo. Se poi ricordiamo, come W.Drake ha mostrato, che per circa 15 anni l'adesione alla visione copernicana è stata per lui oggetto di incertezza, non possiamo che confermarci nella convinzione che per tutti questi anni anche le conseguenze teologiche del copernicanesimo dovevano essergli ben presenti.

Che la questione della localizzazione dell'inferno e del paradiso costituisse argomento di discussione a proposito dell'adesione al copernicanesimo è del resto ben documentato. Francesco Ingoli, nel De Situ et Quiete Terrae Contra Copernici Systema Disputatio ad Doctissimum D.Galilaeum Galilaeum, del 1616, ricorderà che, secondo la dottrina dei teologi e secondo la Bibbia,[3] l'inferno doveva essere localizzato all'opposto del cielo, sede dell'abitazione dei beati, e perciò al centro della terra che risultava essere il luogo più lontano dal cielo.[4]

 

Alterum argumentum est ex doctrina theologorum, tenentium ea potissimum ratione infernum, idest locum daemonum et damnatorum, esse in centro Terrae, quia, cum coelum sit locum angelorum et beatorum, oportet locum daemonum et damnatorum esse in loco remotissimo a coelo, qui est centrum Terrae, Unde bene, Psalmo138, apponuntur infernus et coelum tamquam loca distantissima, dum dicitur: Si ascendero in coelum, tu illic es; si descendero in infernum, ades: et Isaiae 14, dum dicitur regi Babylonis, et in eius figura diabolo: Dixisti, In coelum conscendam, etc; veruntamen usque ad infernum detraheris, et in profundum locum. Legatur illustrissimus Cardinalis Bellarminus, De Cristo, li. 4°, cap. X°, et De Purgatorio, lib. 2° cap. 6°.Cum itaque infernus sit in centro Terrae, et debeat esse locus remotissimus a coelo, Terram esse in medio universi, qui est locus a coelo remotissimus, fatendum est.

 

In sostanza, la visione religiosa del cosmo comunemente accolta veniva sconvolta dalla teoria per la quale la terra non si trovava più nel centro dell’universo. È qui evidente come Ingoli difenda non più solo il sistema tolemaico ma una concezione direi sacra di tutto l’universo che aveva radici ben più antiche. Non bisogna pensare che la localizzazione dell’inferno e del paradiso sia cosa secondaria. La cosmologia copernicana comportava che non fosse più possibile collocare astronomicamente il paradiso. Implicava quindi o una sua radicale negazione oppure la necessità di un ripensamento complessivo di tutta la visione religiosa dell’universo. Implicava cioè una nuova teologia, una riforma radicale della teologia cristiana.

 

3. Questo bisogno di riforma radicale della teologia era del resto già presente alle menti più consapevoli. Si trattava di uno dei grandi momenti di svolta della teologia cristiana. All’inizio, il cristianesimo si era formato attraverso un distacco dal giudaismo pervenendo tra III e V secolo ad una fusione con una visione platonica del mondo che sarebbe entrata in crisi solo agli inizi del medio-evo. Solo attraverso un profondo sconvolgimento si era pervenuti poi tra il XII e il XIII secolo a quella profonda fusione tra cristianesimo e sistema scientifico-filosofico aristotelico che aveva caratterizzato per secoli la visione cristiana del mondo. Ma ora la sintesi aristotelico-cristiana era in crisi. La scienza moderna criticava alla radice ogni aspetto dell’aristotelismo. Il cristianesimo, per alcuni teologi e pensatori cristiani innovatori, doveva rivolgersi altrove per creare una nuova sintesi che gli permettesse di porsi come sistema simbolico complessivo della società moderna.

Nel 1616, Tommaso Campanella, nell'Apologia (edita poi nel 1622), affrontava una difesa teologica di Galileo nella quale Galileo veniva difeso dagli attacchi teologici che gli venivano mossi sulla base dei passi biblici che sembravano affermare la mobilità del sole da oriente ad occidente e la stabilità della terra. Ma in realtà lo scopo principale non era quello di mostrare come l’accettazione del copernicanesimo non fosse in contrasto con la Bibbia. A Campanella premeva mostrare come la sintesi aristotelico-cristiana era ormai da abbandonare al fine di fondare una nuova filosofia e teologia cristiana. Non a caso egli iniziava dicendo che:

 

In passato ho dato risposta a due questioni di grande attualità al tempo nostro, e cioè: «Se sia lecito fondare una nuova filosofia» e «Se sia lecito e conveniente sminuire l’autorità della setta peripatetica e dei filosofi pagani, introducendo in loro luogo nelle scuole cristiane una filosofia novella, consona con la dottrina dei santi».[5]

 

 Campanella affrontava, del resto,  anche le critiche teologiche mosse da Ingoli.

 

Che la terra si trovi o meno al centro del mondo, non è solo cosa che non ha il minimo rapporto con i dogmi della fede, come diceva san Tommaso sopra citato nella quarta proposizione, ma fu anche affermato più tardi dai Padri e dagli scolastici. Anzitutto Lattanzio … Procopio, Diodoro vescovo di Tarso, Eusebio vescovo di Emessa, Giustino…e altri ritengono che la terra non stia al centro del mondo e che il cielo non sia sferico. Uguale opinione sostiene il Crisostomo ….

Ma che la Gehenna si trovi al centro o in altro luogo della nostra terra lo si deduce dalla parola inferno e dal fatto che l’apostolo al capo IV della lettera agli Efesini, scrisse che Cristo ‘era sceso nelle parti inferiori della terra’. Dunque là si trova l’inferno, a meno che non si ammettano altre terre. …. È dunque ignoto se la terra sia nel centro del mondo. Ma se qualcuno volesse collocare al di fuori del nostro mondo le tenebre infernali, che Cristo chiama esterne come sospetta Origine nel commento al Vangelo di Matteo e il Crisostomo ritiene nell’esposizione della lettera ai Romani, ne seguirebbe che esistono altri mondi al di fuori del nostro, che è proprio la tesi che i censori condannano in Galileo, perché non hanno studiato a fondo la Scrittura e i testi dei santi padri….[6]

 

Campanella concludeva poi:

 

Non capisco dunque perché i nostri odierni teologi, senza previe dimostrazioni matematiche, senza esperimenti, senza rivelazioni, si arrogano la certezza che la terra sia immobile al centro del mondo e che l’affermare il contrario sia muovere guerra ai padri e agli scolastici, che essi in realtà non hanno letto.[7]

 

Quanto poi al problema della presenza di acqua nei corpi celesti, dopo una lunga argomentazione in cui metteva insieme brani della Bibbia, filosofia greca e riflessione degli autori cristiani antichi, Campanella concludeva:

 

Pertanto, visto che la sacra Scrittura nelle sue formulazioni letterali tutte concorda con il solo Empedocle, e con gli altri solo se interpretata in senso mistico o artificiosamente, e visto che Empedocle fu pitagorico così come lo è Galileo, ne consegue che questi merita lode, perché dopo tanti secoli, grazie a esperienze sensibili, rivendica la Scrittura dalle interpretazioni elusive e distorte e mostra che i sapienti mondani furono in realtà stolti e che non dev’essere la sacra Scrittura, come si è fatto fin qui, ad adattarsi a loro, perché tocca a loro sottomettersi alla sacra Scrittura.[8]

 

La riflessione teologica di Campanella è profondamente diversa da quella galileiana. Per Galileo l’argomentazione teologica, nelle lettere copernicane, è esclusivamente difensiva e metodologica. Galileo non vuole costruire una teologia cristiana alternativa. Vuole solo proporre delle conclusioni scientifiche e difendere il diritto di divulgarle pubblicamente. Campanella è invece teologo e ragiona teologicamente in modo propositivo.

Non deve sfuggire che, in quegli anni, una delle questioni teologiche rilevanti era se la Scrittura sacra fosse aristotelica o meno. Campanella lo nega. Anche Galileo, in una prefazione al Sidereus Nuncius, poi corretta per consiglio di Federico Cesi, aveva cercato di affermare che la Sacra Scrittura non è aristotelica.

Le osservazioni della luna con il telescopio, smentendo la teoria della perfezione della superficie lunare, avevano infatti conseguenze teologiche. In una prima redazione della Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (Roma 1613), Galileo, anni prima, aveva cercato di sostenere che la Bibbia era contraria a questa teoria dell'astronomia peripatetica proprio per toglierle un sostegno biblico:

 

Or chi sarà che vedute, osservate e considerate queste cose, voglia più persistere in opinione non solamente falsa, ma erronea e ripugnante alle indubitabili verità delle Sacre Lettere? Le quali ci dicono i cieli e tutto il mondo non pure essere generabili e corruttibili, ma generati, e dissolubili e transitori. Ecco la Bontà divina, per trarci da si gran fallacia inspira ad alcuno metodi necessari.

 

Ma, grazie ai consigli di Cesi il quale, nell'anno precedente la pubblicazione, aveva, in via privata e amichevole, preventivamente sottoposto il testo della Istoria ai censori romani, Galileo si era poi deciso a togliere quelle affermazioni dalla redazione definitiva.

Aveva scritto, infatti, Federico Cesi a Galileo il 30 novembre del 1612:[9]

 

Conobbi seco che ragionevolmente i revisori dovevano restar soddisfatti del temperamento che V.S. mi mandò: ma in somma non si po’ se non pian piano ir togliendo di possesso i Peripatetici. Scrissi in iure (per dir così), adducendo … diece luoghi della Scrittura, e altrettanti S.Padri, in confirmation del detto di V.S. che la corruttibilità celeste fosse conforme alla Scrittura e da quella additata. Non bastò; e risposero, i luoghi essere ben interpretati da altri peripateticamente, e bisognò haver pazienza: c’insomma non vogliono si dica in quel luogo niente della Scrittura.

 

In sostanza, Galileo era non solo consapevole delle conseguenze teologiche, ma addirittura si era lanciato in passato nella rivendicazione della differenza tra concezioni bibliche e aristotelismo, percorrendo una strada che aveva antecedenti e che avrà un lungo futuro.

Il problema di una distinzione tra sacra Scrittura e aristotelismo era ampiamente presente alla consapevolezza del tempo (Si pensi solo alla distinzione tra concezioni bibliche e aristoteliche nella quarta parte del Leviatano di Hobbes). Stava nascendo la consapevolezza di una diversità storico-religiosa culturale delle Scritture ebraiche rispetto alla cultura greca. Questa strada doveva portare allo sviluppo di un’esegesi biblica che andava ricuperando il senso della differenza e della distanza tra mondo culturale ebraico e mondo culturale greco.

La strada della ricerca storica sulla Bibbia ai fini di una riforma della teologia cristiana sarebbe stata a lungo percorsa nei lunghi secoli dell’età moderna, ma non era la strada che voleva percorrere Galileo. La strada di Campanella (e di altri con lui) era quella della formulazione di una teologia alternativa, quella di Galileo fu di non entrare mai direttamente in proposte teologiche. Io credo che egli abbia sempre dissimulato le proprie opinioni in proposito, come ho cercato di dimostrare altrove.[10] La sua strada era quella della proposta di un nuovo sistema cosmico, di una società in cui fosse lasciata libera espressione alle teorie scientifiche (o di filosofia naturale, come meglio si direbbe con il linguaggio del tempo). Forse la sua posizione si potrebbe intuire nella Dedica al Dialogo dei massimi sistemi:

 

La differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza
depende dalle abilità diverse degl`intelletti, il che io riduco all`essere o non esser filosofo; poichè la filosofia, come alimento proprio di quelli, chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in più e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira più alto, si differenzia più altamente; e `l volgersi al gran libro della natura, che è `l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benchè tutto quel che si legge, come fattura d`Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è più spedito e più degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce l`opera e l`artifizio. La costituzione dell`universo, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se quella, come universal contenente, in grandezza tutt` altri avanza, come regola e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà.

 

Ma non è questa la questione che voglio porre all’attenzione. La mia tesi è che il copernicanesimo poneva il problema della riforma della teologia cristiana. Galileo non volle affrontarlo, ma dal punto di vista teologico era questa la questione principale. Porsi oggi il problema se il caso Galileo sia stato chiuso o meno dal punto di vista teologico non può essere fatto se non si affronta la domanda se la teologia cristiana abbia o meno risposto ai problemi fondamentali posti dal Copernicanesimo. La mia risposta, a livello storico, è No. Non c’è stata risposta adeguata finora nell’ambito del cattolicesimo.

La prima questione riguarda la natura della verità della Sacra Scrittura. La risposta di Galileo fu ancora una volta sostanzialmente difensiva: nella Bibbia bisogna distinguere le questioni di fede e di costume da quelle di filosofia naturale. In questo modo egli forzava il testo normativo della IV sessione del Concilio di Trento a rispondere a questioni per le quali non era stato formulato. La nascita del metodo scientifico non era stato preso in considerazione della IV sessione dell’aprile 1546 che aveva di mira esclusivamente le questioni emerse nella Riforma protestante.[11] In ogni caso Galileo voleva intervenire solo in quelle parti minime della Bibbia che trattavano di questioni naturali e, per quelle sole sezioni, propose di distinguere un senso letterale da un senso recondito.

La difficoltà della distinzione lo portava necessariamente ad affermare che il senso recondito dovesse essere scientificamente vero. La Bibbia doveva essere perciò, al livello del senso recondito, copernicana.[12] Ma - se si vuole rispondere alla questione dell’impatto del copernicanesimo sulla teologia cristiana - la questione a cui bisogna dare una risposta non è fino a che punto Galileo fosse concordista, ma se la teologia cristiana ha saputo riformare se stessa eliminando da sé tutti quegli aspetti dogmatici che erano necessariamente legati alla visione della teologia tolemaico peripatetica. È più che evidente che gli articoli del Credo sulla discesa agli inferi di Cristo e sulla sua ascensione al cielo non hanno più alcun significato alla luce dell’astronomia moderna. Quando nel primo capitolo degli Atti degli apostoli (1,2.9-11) si dice che Gesù ascende al cielo, il testo neotestamentario afferma che realmente Gesù ascende al cielo perché condivide la concezione antica per la quale l’abitazione di Dio sta al di sopra dei cieli che devono essere attraversati per poter pervenire all’abitazione di Dio. Non c’è alcun senso metaforico in quel testo, come non ce n’è nel testo della Seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 12,1-4) in cui Paolo afferma di essere asceso al terzo cielo. Il tema dell’ascensione al cielo, attraversando i cieli intermedi grazie a quello che è stato definito “viaggio celeste”, per trovarvi la divinità ed ottenere rivelazioni domina la religiosità antica e tardo antica. Dal babilonico viaggio celeste del re Etana del terzo millennio prima della nostra era al Poema di Parmenide del VI secolo a.E.V. - dove Parmenide su un carro con ruote di fuoco guidato da fanciulle sale al cielo supremo delle divinità per ottenervi la rivelazione filosofia principale - fino a Platone con il viaggio di Er narrato nella Repubblica, al Somnium Scipionis di Cicerone, al Demone di Socrate di Plutarco, ai viaggi celesti del I libro di Enoch, e della successiva letteratura mistica giudica, alle ascensioni attraverso i cieli della letteratura gnostica o ermetica o alla Liturgia di Mitra.

Se il teologo riconosce, come deve riconoscere, l’impossibilità storica di offrire una interpretazione metaforica di testi come quello degli Atti degli Apostoli 1,2.9-11; Marco 16,19; 1 Tim 3,16 che affermano l’ascensione al cielo di Gesù Cristo,[13] non resta che privare la teologia cristiana di tutti i suoi aspetti mitico-cosmologici. Non resta al teologo che il compito di una riforma radicale della teologia cristiana.

Di questa problematica si era pienamente consapevoli al tempo di Galileo. Melchior Inchofer, all'indomani della condanna del 1633, criticherà nel suo Tractatus Syllepticus il sistema copernicano in quanto:

 

Ex eo enim necessario consequitur non verificari secundum propriam locutionem, quae de Christo in Symbolo dicuntur, primum scilicet descendisse ad inferos, deinde ascendisse ad Coelos; qui enim alioqui hic potest esse figuratus sensus, et verbis expressis, et secundum communem et Catholicum vsum acceptis contrarius? Quod enim defensores eius Systematis, haec quoque sicut pleraque alia secundum apparentiam dicta velint tam prope est ad veritatem quam hoc dicendi modo facile totum symbolum euertunt, vt iam aditum aperiant renovandae Heresi Valentinianae, plura ibi narrari, quae secundum apparentiam et phantastice, non vere sint facta.[14]

 

Come si vede, il copernicanesimo poneva in crisi la teologia cristiana su questioni molto più ampie di quella dell’accettazione o meno del sistema tolemaico.

Galileo combatteva il sistema tolemaico, e si limitava prevalentemente a rispondere alle questioni che gli venivano rivolte in funzione della difesa del sistema copernicano. I teologi che lo combattevano difendevano, invece, tutta una serie di affermazioni teologiche che vedevano minacciate dal copernicanesimo. Le due posizioni sono profondamente asimmetriche. Per questo motivo la questione teologica posta dal copernicanesimo non potrà essere risolta fin quando la teologia cristiana non presenterà una formulazione della fede cristiana svincolata dalla visione cosmologica del mondo antico e fino a quando non si presenterà una teoria della verità della scrittura sacra che renda conto del fatto che le affermazioni dell’ascensione al cielo di Gesù negli Atti degli apostoli si pongono come affermazioni a cui non può corrispondere alcun fatto perché non ci sono sette o tre cieli sopra la terra da attraversare per poter giungere ad un posto celeste dove i corpi misteriosamente trasformati possano abitare accanto a Dio. Ciò implica una teoria sulla natura della verità della Bibbia. Negli anni Sessanta alcuni teologi cattolici cercarono di affermare che la verità delle sacre Scritture non può essere scientifica, ma neanche storica o culturale. Le sacre Scritture possederebbero una verità d’altro tipo. Ma questa ermeneutica è ben lungi dall’essersi affermata. Soprattutto non se ne sono tratte le conseguenze teologiche nella riformulazione dei dogmi centrali del cristianesimo.

 

4. La condanna del copernicanesimo del febbraio 1616, con la quale il Santo Ufficio dichiarò che la teoria per la quale il sole si muove ed è centro dell'universo è da considerarsi eretica in quanto contraddice a molti passi della sacra Scrittura, ebbe un effetto fatale sull'evoluzione dell'ermeneutica biblica cattolica. Questo effetto fatale non dipende dal fatto che fu respinto come eretico il sistema copernicano, ma dal fatto che si consacrò implicitamente una teoria ermeneutica concordista. Da quel momento si rafforzò sempre di più nel cattolicesimo la tendenza ad affermare che la Bibbia, nelle sue affermazioni letterali ed esplicite, è necessariamente vera anche dal punto di vista scientifico. Questo fatto dovrebbe interessare maggiormente gli storici della teologia e dell'esegesi biblica. E’ ovvio che questa tesi si oppone diametralmente al tentativo apologetico ed ingenuo di sostenere paradossalmente che la condanna fu pronunciata per permettere un accordo tra scienza e fede. Essa è invece non solo una definizione dottrinale e astratta, ma una definizione che tende a mettere in atto una misura repressiva contro la libertà di insegnamento e di pubblicazione.[15]

Nella decisione del 24 febbraio 1616 vennero condannate come è noto le due seguenti proposizioni. Sono queste proposizioni che qualificano l’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti della scienza moderna e dell’ermeneutica biblica. Non è un caso che la nuova apologetica cattolica di oggi trascuri di affrontare questo testo che invece è quello fondamentale in tutta la questione:

 

1. «Il sole è il centro del mondo e assolutamente immobile per quanto riguarda il moto locale» (in latino: «Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali»);

2. «La terra non è il centro del mondo e non è immobile, ma si muove tutta attorno a se stessa, anche con moto diurno» (in latino: «Terra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam movetur, etiam motu diurno»).

 

La prima fu censurata molto più duramente, perché fu considerata eretica e non solo assurda dal punto di vista filosofico:

 

Tutti dissero che la suddetta proposizione è irragionevole e assurda dal punto di vista filosofico e formalmente eretica, perché contraddice esplicitamente enunciati che si trovano in molti passi della Sacra Scrittura intesi secondo il senso proprio delle parole e secondo la spiegazione e il significato comune che attribuiscono loro i santi padri e i teologi dottori» (latino: «Omnes dixerunt dictam propositionem esse stultam et absurdam in philosophia et formaliter haereticam, quatenus contradicit expresse sententiis sacrae Scripturae in multis locis secundum proprietatem verborum et secundum communem expositionem et sensum Sanctorum Patruum et theologorum doctorum»).

 

La seconda invece fu condannata meno duramente:

 

Tutti dissero che questa proposizione riceve la medesima censura [di quella precedente] dal punto di vista filosofico. Per quanto riguarda invece la verità teologica, essa è dal punto di vista delle fede, almeno erronea» (latino: «Omnes dixerunt, hanc propositionem recipere eandem censuram in philosophia; et spectando veritatem theologicam, ad minus esse in fide erroneam»).[16]

 

In sostanza, ambedue le proposizioni furono considerate assurde dal punto di vista «filosofico». Da quello teologico, invece, la prima venne giudicata eretica, mentre la seconda solo erronea «in fide». Il motivo di questo diverso trattamento è di tipo esegetico ed ermeneutico. Lo troviamo preannunciato più di tre anni prima in una lettera del card. Conti a Galileo. Rispondendo sul problema della conciliabilità tra Scrittura e copernicanesimo, il Conti scriveva:

 

et questa pare meno conforme alla Scriptura: perché, se bene quei luoghi dove si dice che la terra sii stabile et ferma, si possono intendere della perpetuità della terra, nondimeno dove si dice che il sole giri e i cieli si muovono, non puole havere altra interpretazione, se non che parli conforme al comun modo del volgo; il quale modo di interpretare senza gran necessità non si deve ammettere.[17]

 

In sostanza, va considerata eretica un'affermazione che contraddice un enunciato della Bibbia sul quale non ci può essere alcun dubbio, né dal punto di vista dell'enunciazione letterale biblica, né dal punto di vista dell'interpretazione tradizionale ufficiale. Questo è il caso dei numerosi passi biblici che parlano della mobilità del Sole. La Bibbia dice chiaramente che il sole si muove. Affermare il contrario è perciò eresia. Al contrario, le affermazioni della Bibbia che dicono che la terra è stabile, potrebbero essere interpretate, secondo i teologi del Santo Uffizio, in senso traslato, nel senso che potrebbero significare non che la terra sta ferma, ma che permane così come Dio l'ha fatta. Parlare, quindi, di mobilità della terra non costituisce eresia, ma solo un errore dal punto di vista della fede, perché potrebbe non esserci contraddizione con il senso letterale degli enunciati biblici.

La condanna del copernicanesimo del febbraio 1616 è enormemente più importante della condanna di Galilei del 1633, dal punto di vista della storia dell’ermeneutica biblica e dal punto di vista della storia dei rapporti tra teologia cattolica e scienze naturali. Questa condanna è uno degli atti più gravi compiuti da un’istituzione della chiesa cattolica romana in età moderna, perché ha contribuito ad impedire alla chiesa cattolica l’accettazione di molte conquiste della scienza moderna e del principio stesso della modernità.

È questa enunciazione teologica che ha contribuito a rendere la Sacra Scrittura e la teologia cattolica in conflitto permanente con l’evoluzione della scienza moderna. Queste due enunciazioni teologiche presuppongono un’ermeneutica concordista che pone sullo stesso piano epistemologico le espressioni letterali della Scrittura e le argomentazioni scientifiche. È questa teologia, è questa ermeneutica che la chiesa cattolica ha fatto sua da un punto di vista ufficiale per secoli. Dal mio punto di vista, tutto il resto, è secondario.

Per risolvere questa questione sarebbe necessario che la Sacra congregazione per la dottrina della fede dichiarasse oggi errata la decisione del febbraio del 1616, ma soprattutto chiarisse quale è, a suo papere, la natura della verità della sacra Scrittura, visto che essa non può essere né scientifica né storica.

Il copernicanesimo aveva un impatto su concezioni, come abbiamo visto, profondamente radicate nel mondo antico. Il fatto che il cristianesimo fin dalle origini abbia fatto proprie quelle concezioni, implica che una loro trasformazione è fenomeno che implica necessariamente lunghi periodi d’adattamento. La questione venne riproposta per secoli fin quando esistettero istituzioni scientifiche, istituzioni ecclesiastiche e pratiche di ricerca scientifica sulla natura insieme a pratiche di esegesi dei testi biblici.

Un momento di grande fervore riformista fu attraversato dalla teologia della chiesa cattolica tra gli anni Ottanta del XIX secolo e nel primo quindicennio del XX. Ma poi la repressione antimodernista fece piazza pulita per decenni di questi tentativi. Un nuovo movimento di riforma prese vita tra gli anni Trenta e gli anni Settanta, ma ancora una volta il periodo di riformismo teologico fu seguito da un periodo di reazione ed oggi viviamo in un epoca in cui le tendenze alla riforma teologica sembrano essere sistematicamente bandite.

La riposta della teologia cattolica attuale alla domanda sulla natura della verità della sacra Scrittura non sembra tenere presente la questione radicale sollevata dal copernicanesimo. Anche di fronte al problema della riforma della teologia cattolica, se si eccettuano i tentativi di grandi teologi come Hans Küng, la ricerca teologica cattolica attuale sembra non solo essere senza risposta adeguata, ma addirittura negare il problema stesso. Scriveva Hans Küng nel suo Credo. La fede, la chiesa e l’uomo contemporaneo:

 

«Non viviamo più […] ai tempi di Lutero e Melantone, che avevano fra le mani il libro veramente rivoluzionario del canonico cattolico Nicolò Copernico sul sistema eliocentrico e lo condannavano - a motivo del suo netto contrasto con la Bibbia -[…]. Quasi quattrocento anni dopo Copernico, trecento dopo Galileo, duecento dopo Kant e cento dopo Darwin (tutti inizialmente condannati da un “magistero” romano incapace di imparare) sono consapevole che, letteralmente, ogni parola del “simbolo apostolico” deve essere reinterpretato nel mondo postcopernicano, postkantiano, postdarwiniano e post einsteiniano, come anche le precedenti generazioni, di fronte a svolte epocali decisive, alto medioevo, Riforma, illuminismo - hanno dovuto comprendere in maniera nuova la medesima professione di fede».[18]

 

Come ho sostenuto altrove, Galileo, tuttavia, si guardò sempre dall'accennare a questo argomento della localizzazione dell'inferno e del paradiso.[19] Un atteggiamento estremamente cauto adotterà anche a proposito di un'altra dibattuta questione teologica che sorgeva a proposito del copernicanesimo, quella della fine dell'antropocentrismo cosmico e l'apertura almeno possibile a una pluralità di mondi abitabili. Galileo mostrerà di conoscere bene la questione e si esprimerà esplicitamente sia nel 1613 sia nel 1616 contro la possibilità di uomini e essere viventi sulla luna per motivi scientifici e non teologici.[20] Ma di questo ho parlato altrove ed è cosa nota.

 

In sintesi, la grande questione teologica che la visione copernicana poneva alla teologia era quella di sapere se il cristianesimo è una religione talmente coinvolta nelle concezioni astronomico-mitologiche del mondo antico da non riuscire a sopravvivere se non continuando ad affermarne la verità anche oggi, o se invece esso possieda una verità capace di rispondere ai problemi etici e conoscitivi e comunitari di un mondo concepito al di fuori delle concezioni mitiche del mondo antico. Queste domande sono oggi più che mai aperte. Il “caso” Galileo non è chiuso.

 

 

 


[1] OG (= Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei) I, pp. 344-366. Su tutta la questione cf. S. Drake, The Evolution of 'De Motu', «Isis» 67, 1976, pp. 239-250.

[2]S.Drake, Galileo. Una biografia scientifica, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 39.

[3]L'argomentazione era basata su Bellarmino, De Christo lib.4 cap.X; De Purgatorio lib.2 cap.6 e su passi biblici come il Salmo 138 e Isaia 14.

[4]OG, V, pp. 407-408.

[5] T.Campanella, Apologia di Galileo, a cura di L.Firpo, Torino, UTET, 1968, p. 35.

[6] Ivi, pp.92-94.

[7] Ivi, p. 94.

[8] Ivi, p. 118.

[9] OG, XI, p. 439.

[10] L'indisciplinabilità del metodo e la necessità politica della simulazione e della dissimulazione in Galilei dal 1609 al 1642, in P.Prodi (a cura di), Disciplina del corpo, disciplina dell'anima, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 151-174, ora in M.Pesce, L’ermeneutica biblica di Galileo e le due strade della teologia cristiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, pp.197-213.

[11] M.Pesce, La lettera a Cristina: una proposta per definire ambiti autonomi di sapere e nuovi assetti di potere intellettuale nei paesi cattolici, in: F.Motta (a cura di), Galileo Galilei. Lettera a Cristina di Lorena, Genova, Marietti, 2000, pp.28-29.

[12] Su questo argomento sono intervenuto più volte, ma da ultimo ho precisato la mia interpretazione in M.Pesce, L’ermeneutica biblica di Galileo (cit. nota 11), pp. 224-226.

[13] Cfr. Rom 8,34; Eb 1,3; 4,14; 7,26; 8,1.

[14]Tractatus syllepticus, in quo quid de Terrae Solisque motu vel statione secundum Sa.am Scripturam et Sanctos Patres sentiendum, quave certitudine alterutra sententia tenenda sit breviter ostenditur.Romae, excudebat Ludovicus Perignanus, 1633, pp. 31-32. Del resto, molti anni dopo, G.B.Riccioli insisterà sulla necessità della verità di alcune proporzioni naturali contenute nella scrittura «tamquam mediis» «vel ad fundandam aliquam doctrinam» (cf. M. Pesce, L'interpretazione della Bibbia nella lettera di Galileo a Cristina di Lorena e la sua ricezione. Storia di una difficoltà nel distinguere ciò che è religioso da ciò che non lo è, «Annali di Storia dell'Esegesi» 4, 1987, p. 268. Anche la teologia protestante calvinista era consapevole del problema: cfr. M.Pesce, Il Consensus Veritatis di Christoph Wittich e la distinzione tra verità scientifica e verità biblica, «Annali di Storia dell’Esegesi» 9, 1992, pp. 53-76.

[15] M. Bucciantini, Contro Galileo. Alle origini dell’Affaire, Firenze, Olschki, 1995.

[16] Pagano, I documenti (cit. nota 2), pp. 99-100. Cf. F.Motta (a cura di), Galileo Galilei (cit. nota 13), pp.167-170.

[17] OG, XI, pp. 354-355.

[18] Milano, BUR, p.17 (or. ted. 1992).

[19]Pesce, L'indisciplinabilità del metodo (cit. nota 12) p. 169.

[20] Ivi, pp. 170-171.