Rencensione (del 1983) a E. P.Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese

Condividi questo articolo

Recensione (pubblicata nel 1983) a

E.P.Sanders, Paolo e il Giudaismo palestinese, a cura di M.Pesce, traduzione italiana di Pier Cesare Bori, Brescia: Paideia 1981.

 

Pubblicato nel 1977, a dieci anni di distanza, conserva ancora tutta la sua forza evocativa. E' uno dei pochi libri dell'esegesi neotestamentaria con cui è veramente necessario fare i conti negli ultimi decenni. Ciò deriva in gran parte da una doppia caratteristica che si incontra molto raramente. Anzitutto la capacità di rileggere direttamente, liberamente,  come base necessaria, preventiva per la successiva ricerca, non singoli versetti, non singoli brani, ma intere opere, anzi interi corpi letterari. In questo modo la ricerca su muove su una conoscenza approfondita ed originale delle fonti. Si ha l'impressione che, oggi, molto del lavoro esegetico sia invece basato su una conoscenza insufficiente dei testi, o per lo meno su di una conoscenza che si approfondisce solo in occasione di singole ricerche funzionalmente ad interrogazioni parziali e occasionali. Una seconda caratteristica è il confronto con la letteratura scientifica che privilegia i grandi autori, le grandi interpretazioni, letti a fondo dalla prima pagina all'ultima e su un arco cronologico abbastanza ampio, cioè non limitato solo agli ultimi cinque o sei anni. Non credo affatto di sbagliare dicendo che invece il lavoro esegetico si svolge oggi per lo più con un confronto senza ampio respiro con la più recente produzione scientifica, badando a spulciare singoli articoli e singole tesi esegetiche, quasi trascegliendo singole pagine e singole note nella vastissima letteratura che ogni anno riempie gli scaffali delle biblioteche e le pagine delle riviste. Il libro di Sanders è nato da una preventiva prolungata lettura di una enorme mole di fonti e da un attento confronto con le grandi tesi interpretative del novecento esegetico. E' soprattutto questa ampiezza di respiro di conoscenza delle fonti e di ampiezza di orizzonte problematico che basterebbe da sola a raccomandare il libro ad una lettura attenta sia dei giovani in formazione (nella speranza che prendano gusto ad uno stile diverso di studio) sia degli esegeti di professione. Preciso che in genere Sanders conosce accuratamente anche i dettagli dei testi e della discussione. L'ampiezza di respiro non va a scapito della esattezza e della precisione, altrimenti sarebbe solo superficialità. E' vero che chi ha studiato a fondo singoli versetti, rimarrà insoddisfatto nel vedere sorvolata con troppa rapidità tutta una serie di questioni in cui l'esegesi è andata molto più a fondio di quanto Sanders non si avveda, ma questo, in fondo è davvero secondario, perché sulle questioni fondamentali, soprattutto nel primo e nell'ultimo capitolo dell'opera (rispettivamente sul rabbinismo e su Paolo) Sanders ha le carte in regola.

Nell'Introduzione e nel capitolo I (pp.19-339), che costituisce certamente la parte più valida dell'opera, la discussione si muove lungo una serie di problemi e in dialogo con studiosi, ebrei e non,  prevalentemente americani ed inglesi che sono largamente ignorati nella nostra letteratura, sostanzialmente dipendente ancora dalle aree francofone e di lingua tedesca, che per quanto riguarda gli studi giudaici sono oggi per lo più superate.

Nell'introduzione l'argomento in primo piano è quello della comparazione: «non individuare fonti e influenze» ma primariamente «confrontare la religione di Paolo e la sua concezione della religione con quelle che risultano dalla letteratura giudaica palestinese» (p.20). L'esigenza di Sanders di porre su basi corrette la comparazione tra fenomeni religiosi diversi non solo mi sembra da prendere nella più attenta considerazione, ma ha certamente individuato la debolezza principale di molte analisi comparative, il procedimento, cioè, per il quale si paragona uno o piu elementi singoli di un fenomeno, con uno o più elementi singoli di un altro fenomeno che si ritengono identici o affini ai primi, senza avere preventivamente individuato la caratteristica complessiva dei due fenomeni  dei quali si stanno confrontando solo singoli elementi. In questo Sanders fa propria una sensibilità emersa anche negli studi letterari in base agli stimoli dell'antropologia strutturale di C. Lévi Strauss, come egli chiaramente indica alla nota 8 di p.41. Ma si tratta di una dipendenza molto libera e limitata solo ad «alcuni degli aspetti metodologici» : «la relazione tra il tutto e le parti e l'esigenza di limitare la "struttura" (qui chiamata "modello"= pattern) ad una entità significativa le cui parti sono effettivamente interrelate». In pratica Sanders tenta anzitutto di comprendere il modello di religione di ognuno dei fenomeni che studia: giudaismo rabbinico, paolinismo ecc. La critica che qualcuno, anche in Italia, gli ha mosso: trattarsi di un modo di comparazione storico, che non tiene conto dell'evoluzione dei fenomeni, anzi che un vero comparativismo può essere soltanto storico e non atemporale, è francamente non solo ingiusta, ma semplicistica. Bisognerebbe cessare di contrapporre diacronia a sincronia e invece constatare come le possibilità di mediazione tra ricerca storica e discipline antropologiche siano ormai da tempo praticate per alcune correnti storiografiche e antropologiche almeno. In realtà Sanders difende un approccio strutturale minimale: comprendere i singoli elementi di un fenomeno religioso a partire dalla loro collocazione nel tutto, nell'unità di questo fenomeno («la nostra maggior preoccupazione», p.43), un'esigenza che egli pratica tenendo conto anche della possibile evoluzione dei fenomeni presi in considerazione. Ciò non gli fa sfuggire lo scopo principale: comprendere come ogni modello di  religione funziona. Ma quello che più conta è la valenza critica, destruens, della proposta: la capacità cioè di denunciare un limite conoscitivo innegabile di molte comparazioni che si limitano al confronto di elementi particolari, perdendo di vista il fenomeno unitario, nel quale soltanto essi assumono senso. E' una critica che già Buonaiuti nel 1920 faceva valere contro Loisy che, a partire dal confronto di elementi singoli, stemperava il pensiero di Paolo nelle religioni di mistero, perdendo di vista l'intima profonda caratteristica cristiana di Paolo che cristianizzava anche elementi staccati assunti dalle religioni di mistero. Vale la pena ricordare la conclusione di Sanders: «i vari tipi di giudaismo che verranno qui presi in considerazione sono abbastanza stabili ed omogenei (non immobili) da consentire di prendersi la responsabilità di una indagine sul contesto religioso generale in termini di "modello di religione"» (p.51). Da questo punto di vista sono accettabili anche le critiche di Sanders alla Traditionsgeschichte  o al metodo comparatistico nello studio della tradizioni giudaiche (R.Bloch, Vermes, Le Déaut). Il metodo per cui «ci si concentra su una sola tradizione e si cerca di districarne la storia», mette in luce «con esattezza necessità di scorgere e descrivere, dovunque possibile, lo sviluppo storico delle tradizioni esegetiche» ma lascia «alquanto a desiderare come mezzo di studio e di comprensione della religione del giudaismo» nel suo complesso.  Penso che bisognerà avere equilibrio: è certamente giusto che non si può assumere un elemento, una tradizione che si ritrova abbastanza estesamente nei diversi corpi letterari giudaici per basare su quella un'intera comprensione del giudaismo nel suo complesso (cf. la critica di Sanders alla sopravvalutazione di Vermes del motivo della Aqeda , a  scapito di quello della liberazione dall'Egitto). Ma il metodo dell'esame comparato delle tradizioni rimane ciononostante di imprescindibile valore per altri scopi. Avendo io stesso circa un anno fa, ricostruito la storia di una tradizione midrashica mediante  l'esame comparato dei diversi corpi letterari, mi sembra di poter dare ragione a Sanders, nella misura in cui si evidenzia che questi tipi di studi, da soli, non permettono uno sguardo complessivo sui fenomeni religiosi unitari di cui ogni singola tradizione fa parte. Tuttavia sono ancora, anzi sempre più convinto, che solo un'analisi comparata delle tradizioni permetterà di risolvere uno dei più scottanti problemi dello studio del giudaismo antico, che è quello della datazione dei testi, si pensi ad esempio il significato che avrebbe la precisa datazione di alcune tradizioni targumiche ottenuta mediante un sistematico confronto delle Antichità giudaiche  di Giuseppe Flavio con i targumim.

Come ho già detto è nel Capitolo primo della Parte Prima che Sanders dà il meglio. La critica che egli fa della «immagine della religione rabbinica come giustizia legalistica fondata sulle opere» è ormai un punto di riferimento obbligato. Gran parte delle osservazioni critiche di Sanders valgono anche per tutto quanto si è scritto sull'argomento in Italia. Non è corretto continuare a ripetere quanto si scriveva fino a pochi anni fa senza avere esplicitamente risposto punto per punto a Sanders. I problemi sono diversi: è possibile continuare a non differenziare tra rabbinismo e fariseismo?  Esistono testi che senza dubbio possiamo attribuire ai farisei? Esistono parti della letteratura rabbinica tannaitica che siano certamente databili a prima el 70, e quali sono? Leggendo la letteratura esegetica e storica italiana ho l'impressione che non esista un unico criterio per valurtare la letteratura rabbinica e quella cosidetta apocrifa. Mentre per quest'ultima non si esita a riconoscere che la tarda, a volte tardissima redazione finale, non impedisce di individuare, all'interno dei testi, parti o strati o elementi certamente molto più antichi e databili (si pensi agli studi di P.Sacchi su I Enoch), per la letteratura rabbinica ci si limita spesso ad affermare che essendo per lo più di tarda redazione non può servire per ricostruire la storia giudaica da Antioco IV Epifane alla fine del I secolo E.V. Per di più ciò non avviene con una serrata discussione delle opinioni di quegli studiosi che hanno esaminato  la questione della datazione. Per questo siamo grati a Sanders per la discussione che intavola con Finkelstein, Epstein, Neusner, Wacholder, Melamed, ecc. (pp.1O2-111).

Ancora più interessanti le osservazioni sulla natura della letteratura rabbinica. Soprattutto quelle che insistono sul fatto che divergenze di esegesi su singoli passi biblici, per quanto importanti, o divergenze di interpretazioni teologiche su singoli aspetti, per quanto importanti, non permettono sempre di dedurre reali divergenze teologiche tra i diversi maestri che le sostengono. Molto spesso infatti esiste un accordo sottostante. Le differenze nella haggadah non sono sintomo sempre sufficiente di reale divergenza. Quest'osservazione, che Sanders riprende più volte e premette alle pp. 132-133, mi sembra molto stimolante per una riflessione critica sul metodo e sui limiti non solo di studi di storia dell'esegesi in campo giudaico-antico, ma anche di storia del pensiero giudaico. Ciò che è decisivo per Sanders è il funzionamento del sistema religioso dato.