L'UOMO GESU': il punto centrale per capire il Gesù storico

Condividi questo articolo

Maria Cristina Laurenzi scrive su Il Segno (XXV, n.305-306, maggio giugno 2009) un intervento sul nostro libro L’Uomo Gesù (Milano, Mondadori, 2008). Anzitutto la ringraziamo per il tempo che ha voluto dedicarci e per il fatto di averne scritto. Si tratta di un intervento garbato, sereno. Che da un lato espone con chiarezza a lungo il nostro pensiero e dall’altro presenta con pacatezza e misura, ma anche con decisione, una critica di fondo e anche dei suggerimenti alternativi. Ci sembra che sia un modo giusto per intavolare una discussione sgombra da pregiudizi sul Gesù storico. Perché di questo si tratta: discutere a fondo, anche pubblicamente, sulla figura storica di Gesù. Ma non tanto sui presupposti dogmatici, quanto piuttosto sui risultati concreti della ricerca.

           

1. La pratica di vita

 

Noi due autori di L’uomo Gesù collaboriamo da circa vent’anni cercando di far confluire antropologia culturale ed esegesi storica per una ricostruzione attendibile della figura di Gesù e della nascita del cristianesimo. Quando abbiamo deciso di scrivere questo libro volevamo tentare una prima sintesi basata sulle nostre ricerche precedenti, ma che andasse più avanti e proponesse una prima immagine complessiva di Gesù. Ma come fare? Questo era il problema.

            Anzitutto si trattava di costruire una base metodicamente sicura. Il nostro scopo in questo libro non è pastorale, non è teologico, ma scientifico. Uno degli intenti fondamentali del nostro libro è mostrare che è possibile una ricostruzione storica della figura di Gesù se ci si basa su un elemento che a nostro parere è difficilmente contestabile: la pratica di vita. Si è a lungo dibattuto se sia possibile o no una ricostruzione storica della figura di Gesù, posto che le fonti che ce ne parlano sembrano a molti fondamentalmente inficiate da convinzioni formatesi dopo la sua morte. E.P.Sanders più di vent’anni fa, partiva con l’accettare il fatto che una ricostruzione storica basata solo sulle parole attribuite a Gesù nei vangeli non costituiva un base storica sicura, perché le parole erano state troppo fortemente modificate dalla tradizione successiva. Sanders proponeva di basarsi quindi sull’esame delle azioni più sicuramente attribuibili a Gesù. Ne fece un elenco e stabilì anche una scala di attendibilità storica. Noi sosteniamo che una ricostruzione delle fisionomia storica di Gesù è possibile. E questo è già un elemento centrale del nostro libro. Ma, sulla base di una visione che proviene dall’antropologia culturale alla quale Sanders non era particolarmente sensibile, sosteniamo che questa possibilità di ricostruzione storica è data dalla pratica di vita, non dalle semplici azioni.

            Maria Cristina Laurenzi ci sembra che fraintenda il concetto di pratica e lo banalizzi un po’ riducendolo a «gli aspetti della quotidianità» (pag.47) o a «comportamento» (pag. 52) del quale sembra avere un’idea quasi dispregiativa, chiamandolo “l’immediato” (pag. 51) (la virgolettatura è della Laurenzi). E si domanda «Cosa dunque aggiungono gli aspetti di quotidianità al messaggio di Gesù?» (pag. 47). Ci sembra che questa domanda tralasci di porsi il problema da cui nasce il libro e cioè quale sia la base più sicura per una ricostruzione storica di Gesù. Il nostro libro cerca di porre basi criticamente sicure per rispondere a questa domanda. Laurenzi sembra presupporre che si sia tutti d’accordo su quale sia il messaggio di Gesù, quando invece l’accordo non c’è. Molti si domandano infatti se sia quello del Vangelo di Tommaso o quello della Didachè, quello di Marco o quello di Matteo, o di Giovanni, o quello che gli attribuisce Paolo. Per ricostruire questo messaggio sarebbero necessarie centinaia e centinaia di pagine. Il nostro libro non è opera di chiarificazione pastorale e teologica su dati assodati. Cerchiamo di porre le fondamenta per una ricostruzione attendibile della figura di Gesù. E a questo scopo mettiamo tra parentesi il messaggio, per quanto è possibile, per vedere quale fisionomia storica emerga dai testi, se ci si basa sull’analisi della sola pratica di vita.

Con pratica di vita non intendiamo le semplici azioni, che Gesù sia stato battezzato da Giovanni, che abbia compiuto un’azione nel Tempio, che sia entrato con un corteo acclamante in Gerusalemme, che abbia scelto dei discepoli, ecc. La pratica di vita è l’insieme delle tecniche e strategie messe in atto da un individuo o da un gruppo per garantire la propria esistenza (cioè per vivere e per abitare, per entrare in contatto con gli altri, per ottenere gli scopi che si propone). La pratica di vita di un Rom è diversa da quella di un cittadino insediato in un città italiana del Centro-Nord. La pratica di vita di un contadino è diversa da quella di mercante che viaggia per comprare e vendere, o da quella da un monaco o di un marinaio. I modi di produrre e di consumare sono parte essenziale della pratica di vita. Il modo con cui si organizza stabilmente il proprio lavoro, la propria abitazione, il procacciamento del cibo e il suo consumo, e ogni atto teso a riprodursi e vivere con altri con una propria specificità. Tutto questo è una pratica di vita che distingue un uomo dagli altri. Essa perciò non consiste in una catena di eventi, ma in modalità stabili di esistere su un territorio e in un gruppo sociale.

Da ciò deriva un primo corollario: le idee di una persona, le sue concezioni, sono strettamente legate alla sua pratica di vita e lo sono anche le sue azioni giornaliere. Non è possibile separare il modo di pensare di una persona dal suo modo di esistere e neppure le sue singole azioni (quelle di cui si occupava Sanders). Per questo motivo, siamo convinti che le parole di Gesù, le sue idee, il suo messaggio, e le sue azioni stesse non siano comprensibili al di fuori della sua pratica di vita.

L’elemento fondamentale di questa pratica va individuata, secondo noi, nell’itineranza, nel fatto cioè che Gesù abbia rinunciato alla propria famiglia di origine e abbia rinunciato anche a costruirne una sua, che non possieda nulla, che abbia abbandonato il lavoro o che comunque rinunci a lavorare e perciò a guadagnare con la propria attività. Essa consiste nel fatto che non abbia una propria casa e che non si fermi mai se non per poco tempo in un posto, ma che riprenda costantemente il cammino. Questa condizione è così caratterizzata duplicemente. In primo luogo dal distacco dal nucleo domestico (costituto da un’unità di lavoro riunita su un territorio attorno ad un capo e da persone connesse non solo da legami famigliari ma anche lavorativi) e dai suoi obblighi e dalle sue relazioni interne ed esterne (politiche): In secondo luogo, dalla dislocazione continua.

Gesù vuole incontrare la gente. Il suo dislocarsi ha per scopo l’incontro con le persone, un incontro diretto, mai mediato, come giustamente Maria Cristina Laurenzi sottolinea. Un incontro “faccia a faccia”.

La logica inerente a questa pratica di vita comporta necessariamente la creazione di uno schema di rapporti diverso con le persone: l’incontro non avviene più tramite il reticolo di interessi che gli individui sono obbligati a difendere dalle proprie attività e relazioni economiche e politiche. Gesù non è portatore di propri interessi. La gente che egli incontra non riesce a situarlo all’interno del proprio normale reticolo di relazioni. L’incontro con la gente avviene così in una situazione di sospensione necessaria del normale incrocio di “rapporti di interesse” dei gruppi sociali. Una sospensione delle reti sociali normali. Questo tipo di logica è permessa dal dislocamento e dal distacco dalla famiglia e dal lavoro. Non è resa possibile da un mero atteggiamento spirituale, mentale o teologico. E’ un effetto strutturale delle condizioni materiali di esistenza in cui si svolge la prassi.

La struttura dell’itineranza crea il bisogno del centramento della persona in Dio, posto che la persona non ha più una base nel normale reticolo dei rapporti sociali e nel lavoro. In Dio si cerca il sostegno per il cibo quotidiano, il senso delle cose che si fanno, si chiede a Lui di intervenire, si desidera che l’ordine del cielo si riversi in un ordine nel mondo. L’itinerante pensa che solo Dio possa instaurare giustizia nella storia, non attribuisce a sé un ruolo, ha rinunciato ad avere un ruolo politico, se non quello dell’appello all’intervento di Dio. La solitudine per la preghiera e per centrarsi in Dio è perciò una conseguenza necessaria, strutturale della pratica di vita itinerante. Il bisogno della solitudine è creato dalla logica sociale di una pratica di dislocazione che cerca l’incontro diretto con la gente.

            In questo modo noi non affermiamo solamente che Gesù era un itinerante, ma che la struttura della sua pratica di vita ha una logica che genera messaggio e azioni. In questo modo, la nostra analisi antropologica e storica va aldilà di una mera storia della teologia, o di una mera storia del cristianesimo. La specificità di Gesù sta nell’avere posto in essere una pratica di vita che necessariamente crea messaggi e azioni. In questo modo, crediamo di avere dato indirettamente anche un contributo teologico rilevante. Una teologia cristiana non può proporre una dottrina cristiana se prima non ha proposto la pratica di vita di Gesù. Idee staccate dalla pratica di vita di Gesù non sono di Gesù.

2. la relazione con Dio

Per noi si tratta di capire poco alla volta chi fosse Gesù, che tipo di uomo era, che esperienze religiose aveva fatto.  Che la «relazione al Padre» «fosse la relazione costituiva della persona di Gesù» (come dice Laurenzi a pag. 50), se vuole dire che Gesù cercava in Dio il suo fondamento e chiedeva rivelazioni a lui nella preghiera, ebbene, questo lo abbiamo ampiamente detto. Nel nostro libro affermiamo che la pratica di vita di Gesù ha per scopo il rendere possibile a Dio di intervenire nella vita concreta della gente. È un’affermazione che crediamo importante. Normalmente, i molti libri che parlano dell’itineranza di Gesù non parlano quasi mai dell’isolamento e della preghiera di Gesù e delle sue esperienze religiose più profonde. Rimproverarci quindi di non avere parlato della “ relazione di Gesù al Padre” ci sembra strano.

Invece di “relazione al Padre”, preferiamo parlare di pratiche di contatto con il soprannaturale, ma è solo una questione di parole. Ciascuno usa il proprio “gergo”. In ogni caso, noi abbiamo cercato di trovare nella logica stessa della pratica di vita il radicarsi e anzi la creazione stessa di forme religiose originali da parte di Gesù. L’analisi metodica delle fonti ci ha portato però a affermare che le esperienze religiose di Gesù, la sua preghiera e la ricerca costante di un contato con il soprannaturale, fossero in gran parte sconosciuti agli stessi discepoli più vicini e siano difficilmente ricostruibili storicamente. Non crediamo affatto che «negli scritti più antichi questa è la traccia più evidente» (pag. 50). L’esercizio critico sulle fonti qui è fondamentale.

È però vero che Maria Cristina Laurenzi affronta un tema centrale: se la relazione con Dio sia «la relazione costituiva della persona di Gesù». Ora la questione è se Gesù cercasse questa relazione come uomo religioso che vuole adeguarsi in modo particolarmente intenso alla volontà di Dio, per lui sconosciuta. In questo caso, Gesù tentava di scoprire la volontà di Dio mediante la preghiera e magari mediante rivelazioni e visioni soprannaturali. Oppure bisogna pensare che questa relazione con Dio fosse qualcos’altro?  I vangeli di Marco, Luca e Matteo quando narrano la preghiera di Gesù nell’orto del Getzemani pensano chiaramente che Gesù pensasse che la sua vicenda dovesse svolgersi in modo completamente diverso da come andò a finire. Gesù dovette fare uno sforzo straordinario per decidersi ad accordare la sua volontà a quella di Dio. Dobbiamo dedurne che questi tre vangeli pensassero che Gesù per molto tempo si era fatto un’idea della volontà di Dio abbastanza diversa da quella che in realtà era.  Certo Gesù, da uomo religioso, voleva adeguarsi alla volontà di Dio, ma aveva anche propri desideri, propri sogni e aspettative radicate nelle idee religiose del tempo, nella mitologia e immaginazioni della sua cultura giudaica (nella quale certo un ruolo essenziale giocava anche la Sacra Scrittura, la Torah e i profeti). Tutto stava nel cooordinare la propria strategia alla volontà di Dio.

Il Vangelo di Giovanni aveva, invece, una visione ben diversa di Gesù e questo nel libro L’Uomo Gesù lo mettiamo in luce. La preghiera del Getzemani così importante per i vangeli sinottici è del tutto cancellata nel suo racconto ed è sostituita da una preghiera dopo l’ultima cena, al capitolo 17, che ha contenuti molto differenti. Gesù sa già tutto; non prega per sé. Il Vangelo di Giovanni ha una visione diversa del rapporto di Gesù con il “Padre”. Il problema dello storico è quindi quello di riuscire a comprendere quale fosse l’esperienza di Gesù, visto che le fonti evangeliche sono così contraddittorie.

Il potere taumaturgico che Gesù sembra sentisse nel suo corpo era per lui il punto di inizio, la base della sua esperienza di rapporto con Dio, autore di questa potenza? Oppure dobbiamo scavare nelle convinzioni dell’ambiente del suo maestro, Giovanni il battezzatore? Era in quell’ambiente che si imparava a cercare i segni della fine di questo mondo, della quale si era peraltro certi? In quell’ambiente le principali personaltà erano forse convinte di avere un ruolo particolare per volontà divina? E come facevano a convincersene? Certo, il rito del battesimo con la rivelazione soprannaturale che investe Gesù va in questo senso e allora abbiamo cercato nel nostro libro di vedere quali altre esperienze soprannaturali siano state fondamentali per Gesù (ad esempio la trasfigurazione). Ma qui non è la «relazione» con Dio come Padre che è costitutiva, quanto piuttosto la ricerca di una relazione con Dio.  Lo scopo del nostro libro è cercare come si possa dare una risposta, non presupponiamo una teologia particolare.

Siamo in un disaccordo ci sembra abbastanza forte sull’affermazione di Laurenzi: «i comportamenti - l’ “immediato” - non sono mai trasparenti e univoci, l’annuncio è affidato alla predicazione per mezzo della parola, mentre il comportamento può accompagnarla come conferma, ma non sostituirla». A prescindere dal fatto che non abbiamo mai pensato che la pratica di vita sostituisca il contenuto delle parole e delle affermazioni di Gesù. Non lo abbiamo mai né detto, né suggerito. Il punto è che la pratica di vita non è mero “comportamento”. Quanto al fatto che i comportamenti « non sono mai trasparenti e univoci» questo è vero, ma anche la predicazione e le parole non sono mai trasparenti e univoche. Non vi è nulla che sia fatto o proferito che sfugga a questa condizione di non essere trasparente ed univoco. Il fatto è che Gesù ha sempre richiesto comportamenti e non semplici parole. Chi dice si e poi non compie ciò che gli è stato detto di fare è oggetto di denuncia da parte di Gesù. Quando una persona entrava in contatto con lui si trovava di fronte alla richiesta di un cambiamento nella pratica di vita, un cambiamento effettivo, non a “parole”. Che l’annuncio sia affidato alla predicazione è in qualche modo un truismo, visto che per annunciare bisogna parlare. Ma, attenzione, Gesù non è un predicatore. L’annuncio poi non è affatto affidato alla “predicazione”, ma alla pratica di vita. Il primo messaggio è la pratica di vita. Chiedere a Dio “dacci oggi il nostro pane quotidiano” ha senso all’interno della pratica di vita radicale di chi non lavora, non possiede, non ha casa e perciò aspetta da Dio, non dal proprio lavoro, il sostentamento quotidiano. Le parole di Gesù acquistano senso solo se sono ricollocate nel contesto preciso della sua pratica di vita. Devo dire che una lettura di Gesù spiritualistica, svincolata dalla sua pratica di vita, produce un tipo di religiosità che non si impegna concretamente e che è incapace di trasformare la vita degli uomini e delle chiese sul modello della radicalità della pratica di vita di Gesù. Un Gesù troppo comodo, quello spiritualizzato.

Laurenzi scrive che la ripresa della ricerca su Gesù non dipende soltanto dalle scoperte di fonti prima ignote «che permette di inserire Gesù nel suo mondo, ma anche dalla domanda che ne deriva: come mai una persona concreta e totalmente inserita in un mondo limitato nel tempo e nello spazio si è fatta e si fa ascoltare in contesti culturali diversi e lontanissimi?» (p. 52).  Questo modo di impostare la questione presuppone troppe affermazioni gravi. La prima è che il nostro libro si occupi della ricollocazione storica e non della valenza culturale storica del personaggio. Ma è esattamente il contrario. Affinchè a parlare oggi e a «farsi ascoltare» oggi sia il Gesù realmente esistito e non una figura trasformata dalle teologie e dalle spiritualizzanti successive, è necessaria una perpetua ricerca accurata che lo riporti alla luce. E soprattutto riporti alla luce la sua straordinaria pratica di vita che - diciamolo francamente - non viene, se non molto raramente, presa ad ispirazione e messa in pratica dai molti teologi e teologhe che ne parlano oggi. Ritrovare perciò il Gesù storico aldilà delle incrostazioni e trasformazioni delle teologie cristiane è compito primario. L’altro presupposto che forse sta dietro l’affermazione di Laurenzi è che la figura di Gesù sia incomprensibile storicamente e la dimostrazione della sua imprendibilità (o unicità) storica starebbe nel fatto che Gesù si fa ascoltare ancora oggi. Crediamo che oggi queste affermazoni, che forse Laurenzi non fa sue (ma ne parliamo in sé, e non per contrapposizione) siano pericolosissime. Budda è vissuto ben prima di Gesù e continua a farsi ascoltare oggi (e sarebbe urgente anche una ricerca sul Budda storico). Ne dobbiamo dedurre che è imprendibile storicamente, che la sua unicità sta a dimostrare la sua verità divina? Anche Mohammed si fa ascoltare oggi (e avremmo veramente bisogno di un Mohammed storico piuttosto di quello della fede) e i sociologi misurano ogni anno se arriva il momento del sorpasso tra musulmani e cattolici. Agli inizi del VII secolo i teologi cristiani deducevano la verità del cristianesimo dalla sua diffusione nel mondo antico, ma di lì a poco l’Islam conquistò interi territori prima cristiani e si diffuse dal Sud dell’India alla Provenza. Per questo motivo noi crediamo che riportare alla luce la pratica di vita di Gesù sia uno dei contributi più efficaci alla riscoperta della sua attualità culturale.

Postilla: Laurenzi ipotizza che Gesù non abbia mai scritto perché esisteva già la Scrittura, le sacre Scritture ebraiche. Il fatto è che l’esegesi ci mostra chiaramente che la Scrittura non gioca un ruolo centrale nella esperienza religiosa di Gesù. Il che non significa che egli non fosse profondamente imbevuto di cultura religiosa ebraica e che non vivesse consapevolmente e profondamente all’interno di un modo in cui la Torah aveva un ruolo centrale. Gesù non ha mai spinto i suoi discepoli a meditare la Scrittura, a fare riunioni di lettura della Bibbia. Nessuna forma, per così dire, di lectio divina fa parte della esperienza del movimento di Gesù. Questo non vuol dire che Gesù fosse lontano dalla Sacra Scrittura o che lo fossero i suoi discepoli. Ma la lettura, meditazione e studio dei testi biblici non sono il centro, la molla, e il cardine della sua esperienza religiosa.

In conclusione, aggiungiamo 12 tesi nelle quali riassumiamo alcuni aspetti per noi fondamentali che possono essere ritrovate all’interno del nostro libro e intorno ai quali si potrebbe forse accendere una discussione:

  1. Il primo messaggio di Gesù è il suo stile di vita (itinerante, senza lavoro, senza famiglia, senza casa e senza possedimenti). Una novità del libro sta nel mettere in primo piano la pratica di vita di Gesù mentre altri libri si concentrano sulle parole di Gesù o su alcuni eventi isolati.

 

  1. Gesù era contrario alla romanizzazione della Terra di Israele e contro la romanizzazione ha fatto appello agli elementi centrali della sua cultura giudaica (in particolare l’idea del regno del Dio tradizionale degli ebrei su tutta la terra). Il suo annuncio del regno di Dio è una riposta giudaica creativa alla romanizzazione. La sua risposta è stata vincente, perché alla lunga il cristianesimo si è impadronito dell’Impero Romano.

 

  1. Gesù era un uomo di villaggio che evitava le città (che erano ellenizzate e romanizzate) e frequentava solo i piccoli centri e le strade secondarie, per spingere gli ebrei alla conversione.

 

  1. Gesù non crea una chiesa: il suo gruppo si incunea all’interno delle famiglie e non dà vita un’associazione autonoma e si rivolge solo agli Ebrei.

 

  1. Il corpo di Gesù è il luogo principale dell’incontro della gente con lui (corpo normale, ma anche corpo taumaturgico, guaritore, corpo che riflette a volte una luce speciale che si manifesta nella trasfigurazione).

 

  1. Non sappiamo nulla dell’immagine fisica di Gesù, cancellata dall’immagine del corpo degradato e crocifisso  e da quella del corpo risorto.

 

  1. Gesù evita modi di comunicazione indiretta (come la scrittura). Cerca di avere solo incontri diretti con le persone faccia a faccia e soprattutto a tavola. La commensalità  è per lui la manifestazione più alta della convivenza umana.

 

  1. Gesù era  un uomo solo. Certo, egli cercava sempre l’incontro della gente, ma periodicamente si isolava per momenti di solitudine, per pregare e per un contatto con Dio fatto di rivelazioni e visioni. Molto dalla sua vicenda personale è rimasta perciò ignota ai suoi discepoli e ai vangeli.

 

  1. Gesù predicava Dio, ma gli uomini attirati dal suo messaggio e dalla sua potenza di guaritore cercavano lui. Gesù non voleva essere una guida di masse, ma le folle si coagulavano attorno a lui. Non voleva essere una guida popolare, ma lo fu contro la sua volontà.

 

  1. Gesù non controllava gli avvenimenti provocati dalla sua azione, voleva che il regno di Dio si manifestasse mentre egli era ancora vivo, ma invece dovette accettare il destino doloroso della sua sconfitta e della sua morte, interpretandola come un volere di Dio.

 

  1. Uno dei lasciti più importanti per la cultura dei secoli successivi era il suo modo di  reagire interiormente alla sofferenza degli uomini. Gesù ha insegnato ai discepoli a provare le emozioni interiori che portano ad agire a favore degli uomini.

 

  1. I vangeli sono documenti storicamente attendibili, e su di essi si può ricostruire con solidità la storia di Gesù.  Vanno però sottoposti alla critica storica perché contengono divergenze, non sono opere di testimoni oculari e le occasioni storiche e geografiche in cui gli eventi della vita di Gesù si svolsero sono per loro in genere incerte. Non solo i vangeli canonici, ma molte opere cristiane antiche sono utili per ricostruire la vicenda storica di Gesù.

 

 Adriana Destro e Mauro Pesce