Le esperienze religiose di Gesù (preghiera visioni rivelazioni) e come le insegnò ai discepoli PDF

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Nel Vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli si fa luce un pattern di pratica religiosa centrato su riti di preghiera che hanno per scopo l’ottenimento di rivelazioni da parte di Dio o del suo Spirito. L’autore di queste due opere sembra convinto che anche Gesù praticasse questi riti e sembra presupporre una continuità fra le comunità protocristiane che egli conosceva e Gesù stesso proprio nell’esercizio di questa pratica religiosa. Esaminando la pratica di vita di Gesù, ad Adriana Destro e me[1] è sembrato che la collocazione interstiziale di Gesù e la sua condizione esistenziale di itinerante tendesse a provocare o a rendere possibile la creazione di forme religiose sostanzialmente estranee ai luoghi, ai tempi e alle forme religiose istituzionali di allora, e centrate invece sulla propria dimensione corporea e in luoghi e tempi marginali. Il suo progetto di radicale trasformazione religiosa della società ad opera del solo Dio,[2] tendeva a porre in atto azioni rituali che permettessero a Dio di manifestarsi. Gesù quindi cercava di svincolare ogni proprio atto rituale da qualsiasi catena di atti rituali che fosse espressione simbolica della società esistente la quale invece doveva essere profondamente trasformata dall’intervento di Dio. I riti di preghiera che tendono ad ottenere rivelazioni diventano un’esperienza fondamentale nella vita di Gesù e il primo cristianesimo. E’ in essi che il nuovo movimento elabora poco alla volta il proprio sistema simbolico, con il quale cerca di spiegare la sua nuova prassi e la nuova realtà sociale e individuale che sta creando. Nelle due opere lucane, nonostante la straordinaria attenzione alla continuità delle pratiche di preghiera, si fa luce uno spostamento, in Luca, dalla condizione interstiziale di Gesù ad un inserimento più normale nelle istituzioni religiose del giudaismo e verso una sensibilità che tende ad una religione civica e del tempio, secondo la terminologia di J.Z.Smith. Anche nelle lettere paoline emerge l’importanza fondamentale delle pratiche di contatto con il soprannaturale sia al livello individuale di Paolo sia  al livello comunitario. Ma le differenze sembrano anche molto forti. Nelle letteratura giovannista emerge la medesima continuità con Gesù, ma le pratiche di contatto con il soprannaturale sembrano assumere sempre di più un contenuto e una sostanza cristologica.

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[1] Su tutto questo rimando ancora una volta a Destro-Pesce, L’uomo Gesù.

[2] Ivi, p.58.

Mauro Pesce

Dalla pratica religiosa di Gesù a quella dei suoi seguaci.

1.Premessa

In queste pagine presento un’ipotesi per spiegare un’evoluzione, un passaggio avvenuto nel primo cristianesimo. Si tratta di un passaggio da Gesù ai gruppi dei suoi primi seguaci dopo la sua morte. Si tratta di un’evoluzione in un tipo particolare di prassi: il culto. La domanda che io mi pongo, come abbiamo fatto Adriana destro e io in ricerche recenti, è la seguente: esiste una continuità tra il culto di Gesù, cioè il culto che Gesù praticava, e il culto che praticarono i gruppi dei suoi seguaci subito dopo la sua morte?

Questo tipo di interrogazione è diverso da quello che sta alla base delle ricerche di Larry Hurtado[1] che ha concentrato i suoi studi sul culto di Cristo, cioè su un culto che ha per oggetto Cristo. Lo scopo della ricerca di Hurtado è quello di comprendere come e perché si sia formato nel primo cristianesimo un vero e proprio culto di Gesù, cioè, come egli dice, «un vero e proprio modello di comportamento religioso messo in pratica nei primi gruppi cristiani, che riguardi Gesù e sia composto da precisi atti devozionali».[2] Siamo quindi – felicemente - all’interno della ricerca storica. Hurtado si pone, infatti, un problema storico, e si serve perciò dell’esegesi storica. La sua tesi è che un culto di Cristo si sia formato molto precocemente nel primo cristianesimo, certamente nei primi decenni, posto che la più antica testimonianza letteraria che ce ne è pervenuta è l’inno pre-paolino della Lettera ai Filippesi 2,6-11. Questo culto va compreso all’interno del monoteismo ebraico e non come influsso di religioni tradizionali del mondo ellenistico-romano. I fattori principali del suo formarsi sarebbero anzitutto le conseguenze e gli effetti dell’operato di Gesù[3] sui suoi seguaci e in secondo luogo «gli effetti delle grandi esperienze religiose nelle prime cerchie cristiane».[4] Concordo con il giudizio di Hurtado quando scrive: «ancor oggi si tende a ignorare o a minimizzare l’importanza delle esperienze religiose per l’illustrazione e la comprensione del primo cristianesimo».[5]

L’esegesi che si limita ad esaminare ciascun testo al suo interno esaminando prevalentemente la struttura letteraria o narrativa non avrebbe potuto affrontare questo problema e di fatto si trova senza strumenti di fronte alla grande ondata di studi storici che domina oggi nuovamente la ricerca neotestamentaria. Negli ultimi anni, infatti, soprattutto nell’area di lingua inglese, un notevole numero di lavori ha dovuto far ricorso sistematico all’esegesi storica, perché solo con questo tipo di esegesi ci si può misurare, ad esempio, con i risultati del cosiddetto Jesus Seminar che si è sempre mosso al livello della esegesi storica. L’esegesi che si rifugia nella cosiddetta “sincronia” si mostra ora insufficiente.

Gli importanti lavori di Hurtado non entrano in considerazione in queste pagine semplicemente perché la problematica che io affronto è diversa. Io mi domando: 1. in cosa consisteva il culto che Gesù stesso praticava; 2. in cosa consisteva il culto che alcuni gruppi di suoi seguaci praticarono dopo la sua morte. 3. Mi domando, infine, se esista una continuità tra il culto praticato da Gesù e quello praticato dai suoi seguaci non tanto nei contenuti, quanto piuttosto nel tipo di pratica cultuale.

Nel mio lavoro mi servo dell’esegesi storica. Lo storico si propone di ricostruire lo svolgersi di particolari vicende e a questo scopo deve analizzare delle fonti, che nel caso della vicenda storica di Gesù e dei suoi seguaci sono prevalentemente testi - letterari e non - (accanto ovviamente a dati archeologici). Lo scopo finale della ricerca storica non è però la conoscenza dei meri contenuti di un testo. L’obiettivo finale dello storico è una vicenda storica conoscibile tramite i testi che sono fonti per conoscere ciò che è accaduto. In secondo luogo, l’obiettivo della mia ricerca qui non è primariamente un insieme di idee, di concezioni, ma una pratica religiosa: il culto, che consiste primariamente in un insieme di azioni. Infine, la mia attenzione è rivolta primariamente, quando è possibile, alle esperienze religiose. Alla base di queste pagine stanno alcune nostre precedenti ricerche a cui dovrò quindi qua e là fare riferimento.[6] Ribadisco che ciò che presento qui è un’ipotesi di ricerca che andrà poi sviluppata in futuro. Proprio per questo motivo mi soffermo in queste pagine anche sui presupposti metodologici dell’ipotesi.

2. Definizioni e metodi di analisi

Nella definizione del Vocabolario della lingua italiana, di Zingarelli, “culto” si caratterizza per essere un insieme di azioni («complesso delle usanze e degli atti»; «complesso degli atti, dei riti, e degli usi»).[7] Quando però Zingarelli precisa gli scopi a cui questi atti tendono, la sua definizione diventa confusa. Da un lato, afferma che essi sono atti «per mezzo dei quali si esprime il sentimento religioso», dall’altro afferma che sono atti «mediante i quali si rende onore a Dio». Ora, «rendere onore a Dio» esprime una categoria particolare all’interno della categoria più generale che è la «espressione dei sentimenti religiosi». Esistono atti religiosi che non tendono direttamente ed esplicitamente a rendere “onore” a Dio, mentre il rendere “onore” a Dio fa certamente parte degli atti che tendono ad esprimere il sentimento religioso. Il fatto è che questa definizione dello Zingarelli è profondamente insoddisfacente e non corrisponde alla consapevolezza attuale degli studi storico-religiosi e antropologici sulle religioni. Rendere “onore” a Dio ed “esprimere sentimenti religiosi” sono concetti troppo generici e confusi. Poiché il concetto di culto è comunque legato ad una forma particolare di pratica religiosa, preferisco abbandonare completamente questo concetto e sostituirlo nella mia ricerca con un concetto più generale, preciso e chiaro, quello - appunto - di «pratica religiosa».

a. Definisco «pratica religiosa» qualsiasi processo unitario composto di una serie coerente di azioni collegate le une alle altre con le quali un soggetto singolo o collettivo ritiene di instaurare un rapporto con delle potenze ritenute sovrumane o sovrannaturali nella cultura a cui appartiene.

b. L’instaurazione di tale rapporto ha finalità volta a volta diverse (invocazione di benefici, desiderio di ottenere una partecipazione alle forze soprannaturali, lode, adorazione, ringraziamento, purificazione, santificazione, ecc.).

c. Sono pratiche religiose: il sacrificio, la preghiera, i riti penitenziali, la divinazione e tutte le attività tese ad ottenere rivelazioni o conoscenze soprannaturali, l’esorcismo, l’iniziazione, il ricorso a potenze soprannaturali per causare guarigioni o produrre malefici, o per mutare o influenzare il corso naturale o storico degli eventi, ecc.

d. Le pratiche religiose si svolgono normalmente mediante processi rituali.[8] Possiamo definire rito un processo consistente in un insieme di azioni ben ordinate temporalmente che seguono uno schema preordinato, che utilizza patterns comportamentali tradizionali, cioè dotati di forte significato simbolico riconosciuto collettivamente da una cultura e profondamente radicati nell’immaginario collettivo, che ricorrono quasi sempre all’enfatizzazione di forme comportamentali usuali (movimenti corporei, uso della voce, dislocazione anormale nello spazio e nel tempo, ecc,). Lo scopo dell’azione rituale è la trasformazione dello status del partecipante da una situazione iniziale ad una finale e/o la trasformazione di una situazione data. Nel rito si entra in una condizione e se ne esce in un’altra. In base a questa definizione ciò che è “rituale” non va opposto a “puro” o “autentico”, “interiore”, “libero” o centrato solo sull’impegno etico personale. Non esistono forme religiose pure o non rituali e anche il cristianesimo o la religione di Gesù non sono religioni non rituali. Il rito è una dimensione ineliminabile di ogni cultura umana e di ogni esperienza personale e collettiva. Il culto cristiano primitivo, la stessa preghiera cristiana non deve essere opposta al concetto di rito. Anche il silenzio quacchero è una forma rituale, veramente lo è la messa cattolica o la cena del Signore riformata luterana.

Il culto, se vogliamo tornare al concetto iniziale che abbiamo messo da parte, consiste sempre in azioni rituali. Il culto è questione di prassi non di pura riflessione, non di pure parole, non di pure idee. Il rito vuole trasformare l’esistenza concreta degli uomini, non vuole pensarla semplicemente.

  Parlando di pratica “religiosa”, presupponiamo inevitabilmente un concetto di religione. Ora, è vero che la “religione” come la intendiamo oggi non esisteva nel mondo antico, nella misura in cui “religione” è un concetto contemporaneo, che presuppone una separazione di ambiti (politico, economico, artistico, scientifico, religioso, ecc.) impensabile nel mondo antico. E tuttavia, di questa parola e di questo concetto di “religione” non possiamo fare a meno e perciò si tratta di definirlo. Di definizioni di “religione” tuttavia ve ne sono molte[9], che possono anche essere integrate le une con le altre. Nel corso di queste pagine presuppongo soprattutto due definizioni di religione.

La prima, di origine in qualche modo durkheimiana, divide la realtà in due sfere: quella culturalmente definita “umana” o “naturale” e quella culturalmente definita “sovrumana” o “sovrannaturale”. La zona umana o naturale ha bisogno per definizione di entrare in contatto con la zona sovrumana o sovrannaturale per poter vivere, sopravvivere e prosperare. Esistono pratiche rituali e agenti religiosi che mettono in relazione i due ambiti e per questo possono esse definiti religiosi.

Credo anche necessario, però, fare appello ad una definizione che si ispira a C.Geertz in un suo famoso saggio “La religione come sistema culturale”[10]. Per Geertz, la religione è anzitutto un sistema simbolico (nel quale confluiscono credenze, idee, immagini, ecc.) al quale gli uomini religiosi attribuiscono realtà e una forza talmente imponente da orientare tutta la loro vita e spingerli perciò a compiere azioni nella vita reale. In questo senso, i sistemi simbolici religiosi proprio per la forza che possiedono, tendono ad autonomizzarsi dalla realtà che dovrebbero rappresentare appunto simbolicamente. Essi si presentano veri e validi in sé indipendentemente da qualsiasi verifica. Questa definizione di religione merita di essere ricordata ora perché nella formazione dei fenomeni religiosi esistono dei momenti in cui i sistemi simbolici non hanno ancora acquisito una vera e propria autonomia rispetto ai fenomeni della realtà concreta che li richiedono per essere spiegati. Credo che il periodo della vita di Gesù e quello immediatamente successivo alla sua morte sono uno di questi straordinari momenti creativi. Con Gesù e con i suoi discepoli dopo la sua morte non siamo ancora nel momento in cui il sistema simbolico da essi prodotto pretende di essere autonomo dall’esperienza che lo ha generato. Siamo invece in uno di quei momenti in cui l’atto di produzione del sistema simbolico è profondamente legato all’esperienza reale dell’esistenza.

Esiste una molteplicità abbastanza differenziata di pratiche religiose gesuane e protocristiane. Per quanto riguarda Gesù, la mia ipotesi è che la specificità gesuana sia quella di collocare gli atti rituali in alcuni ambiti principali:

a) nella solitudine : in questo caso la pratica religiosa prescelta è la preghiera individuale (non quella collettiva). Essa viene condotta da Gesù in uno spazio che è lo spazio solitario, marginale, non quello consacrato, ufficiale, non quello collettivo, non quello domestico;

b) all’interno degli atti collettivi quotidiani per eccellenza: soprattutto il mangiare insieme. In questo caso la pratica religiosa di Gesù non è la preghiera, ma piuttosto un rovesciamento rituale dei ruoli (ad esempio l’atto di lavare i piedi ai suoi discepoli come uno schiavo faceva con i propri padroni);

c) nel corpo : un tentativo di collocazione corporea del potere divino.[11]

L’esperienza religiosa di Gesù si svolge anche a volte nel Tempio di Gerusalemme o nelle sinagoghe, ma Gesù non localizza mai in questi luoghi e istituzioni le sue esperienze religiose più centrali, più determinanti e più tipiche. La pratica religiosa più intima di Gesù non è mai centrata nel culto del Tempio e della sinagoga, ma in luoghi non istituzionali e non all’interno di riti istituzionali ufficiali.

Per comprendere meglio la particolare localizzazione della pratica religiosa di Gesù è utile il pattern interpretativo presentato da Jonathan Z. Smith in un articolo del 2000, poi ripubblicato in Relating Religion del 2004.[12] J.Z.Smith proponeva uno schema suggestivo per comprendere la natura e la nascita del cristianesimo. Il cristianesimo sarebbe una delle diverse religioni dell’anywhere (in qualsiasi luogo, non: in tutti i luoghi) che si formano nell’età tardo-antica e che si differenziano, da un lato, dalle religioni domestiche (le religioni del Qui, Here) e dall’altro da quelle civiche o politiche o del Tempio (del Là, There). Avremmo quindi una classificazione delle religioni in tre tipi fondamentali.[13] Ciò che per me è essenziale in questa definizione di Smith è il carattere interstiziale delle religioni dell’anywhere.[14] Credo che non si possa comprendere la vicenda di Gesù se non tiene presente che l’associazione volontaria del discepolato è in dialettica con la household organizzata su base territoriale, parentale e lavorativa. Le religioni dell’anywhere, e il movimento di Gesù in particolare, sono sempre in dialettica con le organizzazioni parentali e con le istituzioni religiose ufficiali. La religione domestica e quella civica non muoiono, però, continuano ad esistere, mentre si sviluppano i movimenti religiosi dell’anywhere. Entrano in dialettica con questi movimenti. La grande trasformazione avvenuta tra Gesù e il cristianesimo del IV-VI secolo è che un movimento interstiziale si è mutato, anche se non completamente, in religione del There, in religione politica. Quando, infatti, la natura interstiziale del movimento cessa, la parentela e le istituzioni riprendono il sopravvento e diventano fattori determinanti della nuova religione.

«A volte più strettamente connessa al modello familiare della religione del “Qui” (Here), altre volte più vicina al modello imperiale caratteristico della religione del “Là” (There), esiste un terzo schema di religione che assume molte forme, ma che ha in comune il fatto che non è legato ad alcun posto in particolare.[15] In senso stretto, questa religione “non è né qui né là”. Può essere ovunque. Nelle sue forme arcaiche o classiche, le religioni dell’ “ovunque” (“anywhere”) includono clubs religiosi e altre forme di associazioni, figure di iniziatori religiosi (spesso presentati come itineranti) e agenti religiosi non riconosciuti dai centri di potere.[16] Per usare un’antica distinzione sociologica, in molti casi si tratta di associazioni di persone che hanno uno status ma non un rango. Esse offrono mezzi e modi di accesso a ciò che culturalmente si immagina essere un potere divino non previsti dalle religioni del qui e del là.

 

 

Questa ultima osservazione di Smith è per noi decisiva. Gli agenti religiosi di questi movimenti religiosi sono degli inventori di riti. Inventano modi nuovi di accesso al divino. Giovanni il Battezzatore, vorrei sottolineare, inventa un rito particolare che non è un rito domestico non è un rito templare e neppure sinagogale. E Gesù ha scelto proprio questa pratica religiosa per centrare in essa il cambiamento della sua vita.

 

«Ma d’altro canto - prosegue Smith - anche rifiutano modi di accesso ad esso. Certe volte esse possono imitare e altre volte capovolgere aspetti di queste due altre forme dominanti di religione».[17]

 

I tre fattori che, secondo Smith, caratterizzano le religioni dell’anywhere sono: una nuova topografia; una nuova cosmologia che comporta nuove pratiche religiose; una nuova politica. La nuova geografia:

«Se avviene che la famiglia estesa (la homeplace) e il luogo della sepoltura del defunto da onorare, non sono più topoi coestensivi, allora la religione del Qui è stata distaccata dalle sue radici».[18]

 

Questo può avvenire per dislocazioni dovute a invasioni o colonizzazioni. In questi casi, due possono essere le risposte. La prima si situa al livello dell’organizzazione sociale: «la associazione» volontaria diventa «un sostituto della famiglia costruito socialmente». La seconda consiste nel trovare un’alternativa di tipo cosmologico: il luogo perduto è quello originario, una homeplace celeste dalla quale gli uomini sono esiliati e alla quale possono ritornare non solo mediante la morte. Infatti, anche mediante pratiche rituali

«che sono simili alla morte, gli individui possono ascendere di nuovo alla loro vera abitazione».[19]

Il culto può consistere allora nel riportare l’uomo nella sua patria celeste. Il viaggio celeste è una pratica religiosa che è tipica di questa nuova cosmologia. Questa nuova cosmologia sembrerebbe nascere quando l’abitazione di Dio si allontana nell’immaginario culturale dalla terra a causa della percezione delle sfere planetarie che separano la terra dall’abitazione di Dio al di sopra dei cieli. In questo caso la profezia, i diversi meccanismi di rivelazione, il viaggio celeste che è in grado di fare ascendere l’uomo fino alla dimora divina, diventano ben più importanti dei riti sacrificali, come mezzo di contatto con il divino.

Questa impostazione schematica di Smith è di far comprendere meglio come le pratiche religiose Gesù e il suo movimento abbiano un carattere interstiziale e non si radichino primariamente nelle forme cultuali istituzionali (sinagogale e templare). La domanda che si pone è perciò: quali siano le forme culturali che Gesù e i suoi hanno scelto per la loro pratica religiosa e quale carattere sociale abbiano. Partiremo dalle due pratiche religiose che sono più certe in Gesù: il battesimo ricevuto da Giovanni il Battezzatore e la preghiera.

Il fatto che Gesù abbia scelto una pratica così eccentrica come il battesimo di Giovanni conferma la sua collocazione marginale e non istituzionale.[20] Una pratica religiosa marginale non istituzionale è interstiziale per definizione. Poi certamente Gesù pregava, ma la sua preghiera personale sembra collocarsi in luoghi eccentrici: fugge la mattina dalla casa in cui si trova per pregare in luoghi isolati (Mc 1,35 ), sale su un monte per pregare (Mc 6,46; Lc 9,28).

Per comprendere cosa sia la preghiera o il battesimo è necessario rendersi conto che le pratiche religiose non possono essere concepite isolatamente le une dalle altre. Esiste una connessione fra i diversi tipi di riti. I singoli atti cultuali o rituali sono spesso connessi ad altri atti rituali. Così come hanno uno scopo, così sono connessi ad altre azioni rituali. Ogni atto di culto - ad esempio il sacrificio - deve essere considerato come parte di una serie di atti rituali, dai quali esso non può essere isolato e soprattutto, data la molteplicità di atti rituali che esso necessariamente comporta, come un’azione rituale che implica livelli duali e plurali di significato.[21] Lo studio comparato dei riti sacrificali, ad esempio i riti sacrificali yoruba, o quelli del Medio Oriente Antico, o ancora quelli menzionati nel testi divinatori cinesi della grotta 17 di Dunhuang[22], ha mostrato che i sacrifici sono spesso collegati strettamente ad altre forme rituali, quali ad esempio la divinazione,[23] la preghiera e l’esorcismo.[24] Un possibile schema o modello di connessione ipotetico tra varie forme rituali nella loro succesione logica potrebbe essere il seguente: 1. divinazione; 2. preghiera e sacrificio; 3. esorcismo o uso di talismani.[25] In questo modello euristico, è evidente che la preghiera va pensata come un rito che possiede un suo significato in quanto parte di una catena di differenti azioni rituali. E’ stata l’antropologa cattolica M.Douglas nel suo libro Leviticus as Literature ha indicare che la connessione strettamente diffusa in moltissime culture tra divinazione e sacrificio, è stata scissa ed eliminata dalla riforma levitica dei sistemi sacrificali.[26] Se uno schema euristico possibile è quello che individua il rapporto tra divinazione, preghiera e sacrificio, esorcismo o uso di amuleti, dobbiamo cercare di comprendere dove si situa la specificità dell’esperienza rituale gesuana e poi quella cristiana. Dobbiamo quindi domandarci se e come gli atti rituali del battesimo di Giovanni e la preghiera di Gesù fossero, o no, connessi ad altri atti rituali e ad altre pratiche religiose. Dobbiamo cercare di comprendere in che modo si caratterizzi la specificità dell’esperienza della pratica rituale prima gesuana e poi cristiana, dove esse si situino in una catena di atti rituali e in che modo la modifichino.

3. Alcuni modelli di culto protocristiano

Vediamo ora le pratiche religiose di Gesù dopo la sua morte.[27] Nel Vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli, nelle lettere paoline sicuramente autentiche e negli scritti giovannisti ritroviamo alcuni modelli di culto protocristiano.

3.1. Il Vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli

Per comprendere la pratica della preghiera è utile partire da alcuni testi del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli. In questi testi si ritrova un modello, un pattern liturgico in cui fondamenale è la preghiera come motore di avvio per rivelazioni soprannaturali che si manifestano nel corso stesso della preghiera o comunque della riunione cultuale di preghiera.

Tipico del Vangelo di Luca è di introdurre la preghiera in scene che ritroviamo anche nel Vangelo di Marco e in quello di Matteo, ma senza menzione di una liturgia di preghiera. È ad esempio il caso dell’introduzione della funzione fondamentale della preghiera nelle scene del battesimo, della scelta dei Dodici e della trasfigurazione (Lc 3,21; 6,12-13; 9,28-29). Ciò potrebbe spingere a ritenere “redazionale” questo pattern lucano. Ma esso si trova non solo applicato a Gesù, quando Luca modifica racconti che riguardano Gesù di cui abbiamo paralleli in Marco e Matteo, ma anche negli Atti degli Apostoli quando sono descritte delle scene rituali dei gruppi di seguaci di Gesù dopo la sua morte. Diventa difficile sostenere che si tratti anche in questo caso di un pattern semplicemente letterario senza alcuna base nella effettiva prassi rituale protocristiana. Mi sembra più verosimile che Luca descriva questi fenomeni rituali delle comunità protocristiane perché li aveva osservati realmente in esse o perchè li riteneva dei fatti realmente avvenuti. Io parto dall’ipotesi che Luca sia storicamente affidabile e che sia invece sottoponibile a critica storica solo quando esistono discrepanze interne o rispetto a fonti esterne.

a. Tralasciando i testi del battesimo e della trasfigurazione lucana,[28] esaminiamo il testo di Luca 6,12-13, che descrive l’episodio in cui Gesù sceglie i Dodici e di cui abbiamo i paralleli in Marco 3,13-19 e in Matteo 10,1-4:

« Avvenne poi in quei giorni che egli se ne andò sul monte a pregare e passò la notte nella preghiera di Dio e quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse fra loro dodici, ai quali diede il nome di apostoli».

 

Marco si era limitato a dire:

«E sale sul monte e chiama chi volle lui e vennero da lui e costituì Dodici» (3, 13-14).

 

Marco non menziona, quindi, in alcun modo la preghiera di Gesù. Matteo, poi, non solo non parla di preghiera, ma neppure della salita sul monte. Il Vangelo di Giovanni, come si sa, non riporta l’istituzione dei Dodici. È solo Luca, perciò, a dire che Gesù sale sul monte con lo scopo di pregare. L’attenzione alla preghiera è forte: si tratta di una preghiera che dura anche la notte successiva. La scelta dei Dodici avviene la mattina dopo.

Il fatto che Gesù abbia passato un’intera notte in preghiera (presumibilmente al buio), se non anche la giornata precedente, è un atto di grande rilevanza che riguarda la sua pratica religiosa. Luca pensava che questa esperienza di preghiera fosse realmente accaduta perché ne era stato informato dalle sue fonti? Oppure dobbiamo semplicemente pensare che si tratti di un elemento redazionale letterario lucano?

F. Bovon afferma: «per Luca gli elementi strutturali della preghiera di Gesù» sono: l’espressione del rapporto con Dio, cioè l’adorazione; poi la domanda[1] e l’intercessione […] per lo sviluppo del disegno salvifico di Dio mediante l’obbedienza della fede verso la parola divina di rivelazione. Bovon dice che Gesù chiede rivelazioni per sapere quello che non sa, per conoscere quello che Dio vuole da lui. Gesù prega per ottenere una rivelazione della volontà o del pensiero di Dio. Bovon pensa che nella preghiera di Gesù secondo Luca sia presente anche l’intercessione. Intercedere in latino vuol dire mettersi in mezzo. Intercessio è il dirittto di un tribuno di opporsi all’azione di un magistrato. L’intercessor è un mediatore, intermediario, mallevadore, garante. Quindi se Gesù intercede vuol dire che media le esigenze degli uomini di fronte a Dio, che ritiene di avere un potere presso di lui, che sa di poter essere ascoltato, di avvere un influsso su Dio. C’è tutto questo in Luca?

Ora, che la frase « se ne andò sul monte a pregare e passò la notte nella preghiera di Dio» sia redazionale non ci sono dubbi. Che Luca non sia testimone oculare non ci sono dubbi. Chi sono allora i suoi informatori che gli hanno riportato questa notizia? E questi informatori quale notizia sicura avevano a loro volta sui fatti che riportavano? O dobbiamo pensare che la frase è un’invenzione letteraria, un elemento redazionale puramente letterario senza base nella prassi religiosa di Gesù? La domanda esegetica corretta mi sembra che possa essere formulata nel modo seguente: in base a quale modello di preghiera e di esperienza religiosa Luca ha potuto immaginare che Gesù passasse in preghiera la notte? Oppure, dove Luca ha osservato un’esperienza di preghiera che dura tutta una notte prima che venga presa una decisione estremamente rilevante?

Bovon cerca modelli letterari: ad esempio la Vita di Mosé di Filone dove Filone sottolinea i 40 giorni di Mosè in cui avviene la “rivelazione di arcani, soprattutto sul sacerdozio e il santuario”.[29] Al racconto di Luca corrisponde, nella Vita di Mosé, il fatto che Mosè scelga i 12 esploratori, i sacerdoti e i leviti. “La preparazione alla scelta dei sacerdoti che avviene nella preghiera richiama - nota Bovon - la nostra attenzione”.[30] Ma per Bovon sono soprattutto importanti le Antiquitates Biblicae dello Pseudo-Filone: in esse, dopo l’infedeltà del popolo, «Mosè risale per la seconda volta sul monte e prega (12,8)». È a questa seconda promulgazione di comandamenti che va paragonato Lc 6,12-16 e non alla rivelazione e al dono della Legge sul Sinai, perché è li che i temi della montagna e della preghiera sono combinati e non è richiesta la santificazione preliminare del popolo”.[31]

Quindi il modello che Luca segue sarebbe, secondo Bovon, un modello letterario. Ma io mi domando se sia verosimile che Luca abbia mutuato da un modello letterario l’idea di un’esperienza religiosa così radicale di Gesù. Bovon, in realtà, sembra pensare che non si tratti soltanto di un modello letterario, ma di realtà storica. Per lui, a quanto sembra, è redazionale solo il modello della preghiera sul monte per una seconda promulgazione di precetti al popolo. Storico sarebbe invece il modello di preghiera di Gesù. E infatti Bovon afferma che questo modello è costitutivo anche per la preghiera dei cristiani, sia quella individuale (Lc 11,5-13; 18,1-14 ecc.) sia quella comunitaria (per es. Atti 1,14; 4,24-31).

Ora, se Luca non si riferiva solo ad un modello letterario è perché riteneva del tutto plausibile che Gesù avesse simili radicali esperienze. Ma se lo riteneva plausibile, da dove traeva questa convinzione? Mi sembra che senza una reale esperienza di riti di preghiera è ben difficile che Luca abbia potuto costruire questa scena. La preghiera storica di Gesù è una «preghiera a Dio» (proseuchè tou theou), «quest’espressione - è sempre Bovon che scrive - abbraccia le domande e i silenzi di Gesù e la risposta di Dio» perché preghiera deve essere vera comunicazione: Gesù domanda e Dio risponde. Quindi: ci sono state delle rivelazioni, rivelazioni di ciò che Gesù non sapeva e voleva sapere.

La pratica religiosa di Gesù riferita dal Vangelo di Luca è comunque un processo rituale complesso composto di diverse fasi e azioni rituali:

a. la dislocazione: consistente nel salire sul monte e distaccarsi dall’ambiente consueto (bisogna rendersi conto che anche la salita fa parte dell’azione rituale);

b. la scelta di un luogo marginale, non istituzionalmente destinato a riti, ma tradizionalmente ritenuto simbolicamente rilevante come luogo di manifestazione di Dio: il monte;

c. la solitudine, che implica l’entrare in uno stato sociale, psichico e corporeo diverso, alterato rispetto alla normalità e che implica una situazione marginale e non istituzionale;

d. il tempo: la scelta della notte ha un significato rituale rilevantissimo e non implica solo l’abolizione del riposo;

e. la durata eccezionale della preghiera;

f. poi una decisione come conseguenza della preghiera e dell’eventuale rivelazione in essa ottenuta: la scelta dei dodici che fa parte dell’azione rituale, ne è la conseguenza e la conclusione;

g. infine, la ridiscesa nel luogo pianeggiante nella situazione normale, dopo avere però ottenuto uno status differente: ormai Gesù è attorniato dai Dodici (6,13).

In diversi altri passi il Vangelo di Luca sottolinea la pratica religiosa di preghiera di Gesù, con una particolare attenzione agli elementi esperienziali e rituali e con un’insistenza sulla centralità di questa pratica.

            In 5.16 Luca scrive:

 

«Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari e pregava».

 

Il confronto con gli altri due Sinottici è fondamentale. Anche Mc 1, 45 dice che Gesù stava «in luoghi solitari» (mentre Matteo lo ignora), ma è solo Luca ad aggiungere che Gesù «pregava».

      E’ solo Luca 9,18, a differenza di Mc 8,27 e Mt 16,13, a dire che Gesù stava pregando e che il luogo era un luogo appartato.

«Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare, i discepoli si unirono a lui (oppure: erano con lui), e li interrogò dicendo: “Che cosa dicono le folle che io sia?”. Essi risposero: “Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto”. Allora domandò: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro, prendendo la parola, rispose: “Il Cristo di Dio”. Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno. “Il Figlio dell’uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno”» (Lc 9,18-22).

L’aggiunta di Luca («Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare») può voler significare che solo dopo un rito di preghiera Gesù è in grado di trasmettere la rivelazione sul suo destino finale.

Il testo di Luca non è chiaro sul fatto se i discepoli fossero con lui durante la pregiera (e quindi vi parteciparono) oppure se si unirono a Gesù solo dopo. Se dovessimo tradurre «i discepoli erano con lui», potremmo ipotizzare che Luca pensasse che Pietro avesse ricevuto durante la preghiera la rivelazione dell’identità di Gesù. Se invece i discepoli si unicono a Gesù solo dopo la preghiera, Luca ha voluto sottolineare che dell’azione rituale di Gesù fa parte integrante e caratterizzante anche la solitudine.

            Come è noto, il Padrenostro viene trasmesso nei Sinottici solo da Matteo e da Luca (ovviamente anche dalla Didachè). Ma è solo Luca (11,1) e non Matteo che ritiene che Gesù l’abbia insegnato ai discepoli dopo un rito di preghiera:

«Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite, ecc.».

Del resto è solo Luca che afferma, in un altro passo:

«Disse loro una parabola sulla necessità che essi pregassero sempre (oppure: “in ogni momento”, pantote), e di non scoraggiarsi»  (18,1).

Il «sempre» sembra implicare che la preghiera non deve essere praticata solo nelle ore canoniche e che l’uomo religioso deve stare sempre in uno stato interiore che lo renda in grado di porsi in contatto con il divino. Credo che la traduzione migliore sarebbe «in ogni momento». La preghiera in quanto stato rituale costante è la condizione esistenziale permanente dell’uomo religioso secondo Gesù, a parere di Luca. Uno stato rituale costante che però si attualizza in certi momenti.  Chi esamina la struttura rituale della preghiera si accorge quanto sia errata l’affermazione di coloro che ritengono che il rito sia una forma religiosa deteriore. La preparazione rituale della preghiera richiede un’attenzione straordinaria e totale: la scelta del tempo, del luogo, della durata, la preparazione interiore, la preparazione corporea, la disposizione all’apertura verso la volontà di Dio, la tensione a riceverne ogni rivelazione e ogni decisione nella propria vita. Senza la complessa trasformazione rituale del Sé non c’è apertura al soprannaturale, non c’è preghiera.

            In sette casi, quelli da me esaminati qui, Luca ha quindi corretto Marco intenzionalmente. Per lui, Marco aveva tralasciato una dimensione essenziale della pratica religiosa di Gesù. Non possiamo sfuggire alla domanda se questa correzione di Luca corrisponde all’esperienza del Gesù storico o no. Con la semplice esegesi letteraria dei testi questa questione non può essere posta e risolta.

b. Se noi esaminiamo diversi passi degli Atti, ad esempio Atti 4, 23-31; 10,1-16; 13,1-3, troviamo in questi brani un modello di azione rituale complessa, in cui (a) la preghiera è presentata in un contesto rituale chiaro, a volte collettivo, a volte individuale, che ha (b) lo scopo - ottenuto con successo - di instaurare un contatto con il mondo soprannaturale e (c) di ottenere un intervento di questo mondo soprannaturale, sotto forma di visione, comunicazione vocale di rivelazioni, o di trasformazione corporea, con (d) l’intento finale di prendere una decisione.

In Atti 3,1 si dice: «un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera (proseuchê) verso l’ora nona». Qui il modello sembra diverso da quello che sopra ho messo in evidenza a proposito di Lc 6,12-13, e per di più presenta un’aggiunta: la relazione stretta con il Tempio e l’azione sacrificale che vi si svolge in certe ore.[32] In questo caso, è straordinariamente importante che la preghiera sia quella che viene pronunciata nel Tempio in connessione con il sacrifico della sera (cf Daniele 9,20-21[33]). Se il testo fosse affidabile dal punto di vista storico, Mishnah Tamid 5,1 mostra che della liturgia sacrificale faceva parte anche la recita dello Shema‘, insieme alle benedizioni relative e alla proclamazione dei 10 comandamenti. Mishnah Tamid 7,4 contiene l’elenco dei salmi cantati alla fine del servizio, sacrificale, che quindi implicava la preghiera.

Gli Atti, perciò, dicendo che Pietro e Giovanni vanno a pregare in occasione del sacrificio serale, suppongono che essi partecipino ad una liturgia sacrificale di cui anche la preghiera è parte, in un insieme di azioni rituali complesse.

Ci troviamo qui di fronte ad un atto cultuale della religione del There, della religione civica e politica, templare. Non in quella delle associazioni interstiziali, delle religioni dell’anywhere. Ma sappiamo che i movimenti religiosi interstiziali coesistono con la religione domestica e con quella civica e templare. Luca però non oppone la religione interstiziale a quella civica, sembra non percepirne la differenza. Siamo probabilmente di fronte ad uno spostamento di accento, di fronte ad uno spostamento della funzione sociale delle prime comunità come le vedeva Luca rispetto a come le vedeva Gesù. Tuttavia, non abbiamo notizia che la preghiera di Gesù sia mai stata connessa a questa liturgia.

Molto diverso è lo schema rituale di Atti 13,1-3 e Atti 10,1-16. Leggiamo il testo di 10,1-16:

C’era in Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno verso l’ora nona vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: «Cornelio!». Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio. E ora manda degli uomini a Giaffa e fà venire un certo Simone detto anche Pietro. Egli è ospite presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare». Quando l’angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, spiegata loro ogni cosa, li mandò a Giaffa. Il giorno dopo, mentre essi erano per via e si avvicinavano alla città, Pietro salì verso la sesta ora sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, un’estasi (ekstasis) venne su di lui. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Alzati, Pietro, uccidi e mangia!». Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo». E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano». Questo accadde per tre volte.

 

Nel caso di Cornelio, bisogna supporre che la visione che egli riceve avvenga mentre pregava perché si dice che egli «pregava sempre Dio (deomenos tou theou dia pantos»). Non sfuggirà che dia pantos è un sinonimo di pantote, l’avverbio che il Gesù di Lc18,1 usa per dire che bisogna pregare in ogni momento. Che Cornelio riceva la visione mentre prega è confermato dal testo stesso di Atti 10,30:

«Cornelio allora rispose: “Quattro giorni or sono, verso quest’ora, stavo pregando (êmên proseuchomemos) la nona nella mia casa,[34] quando ecco di fronte a me un uomo in veste splendente».

Al v. 4 l’angelo dice a Cornelio:

«Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio».

Come ha notato E.Delebecque,[35] ricordando il Salmo 140 (141),2, la salita della preghiera innanzi a Dio è in connessione con la salita del fumo dei sacrifici al cospetto di Dio. La preghiera, in sostanza, non è scindibile dal sacrificio con cui è connessa.

Molto probabile, ma non certa, è anche la connessione dell’ora della rivelazione con l’ora del sacrificio nel Tempio di Gerusalemme. Se anche questa seconda connessione fosse pensata dall’autore degli Atti, potremmo dire che qui la visione appare all’improvviso durante la preghiera fatta in connessione con il sacrificio del Tempio.

Non può essere causale che le ore indicate per la preghiera e la rivelazione ottenute da Cornelio e da Pietro coincidano con quelle dei sacrifici che si svolgono nel Tempio. Del resto è difficile pensare che l’autore degli Atti (se è lo stesso autore del Vangelo di Luca) non stia molto attento al fatto che l’ora nona è quella della morte di Gesù che era pensata in connessione all’ora del sacrificio del Tempio di Gerusalemme.

Che l’autore degli Atti pensi forse che vi sia una connessione tra visione e sacrificio, non deve sembrare strano. La connessione tra sacrificio e divinazione, infatti, come abbiamo fatto notare fin dall’inizio può essere normale in molte culture ed esisteva nella religione romana di cui l’autore degli Atti è certamente informato.

Anche la visione ricevuta da Pietro in Atti 10,9-16 si verifica durante il rito della preghiera individuale (non abbiamo qui alcuna liturgia collettiva).[36] Sembra anche che Pietro non intraprenda la preghiera per ottenere una rivelazione. Durante la preghiera si verifica in modo improvviso ciò che il testo chiama ekstasis:[37] i cieli si aprono e Pietro vede scendere in terra il lenzuolo pieno di bestie considerate impure dal libro del Levitico. In questo caso, la funzione della visione è quella di porre in luce un problema, quello della impurità del cibo, e immediatamente dopo la sua soluzione. Una decisione su questa questione sarebbe stata impossibile senza una legittimazione soprannaturale. La rivelazione ottenuta è di straordinaria rilevanza «Ciò che Dio ha purificato tu non farlo profano».[38]

La connessione della preghiera di Pietro con l’ora sesta fa problema agli esegeti perché non sembra in connessione con un sacrificio del Tempio né con un’ora fissa per la preghiera.[39] Mentre quindi la preghiera di Cornelio sembra maggiormente espressione di una religione del tempio quella di Pietro sembra maggiormente muoversi al di fuori di essa. Svolgendosi in qualsiasi luogo e tempo.

In ogni caso, la preghiera appare in Atti 10, 1-16 come un atto rituale complesso e ad essa si connettono rivelazioni (che si esprimono con voci e visioni) che avvengono all’improvviso durante la preghiera stessa.

Leggiamo ora anche il testo di Atti 13,1-3:

C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo. Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono.

Gli Atti descrivono, qui, un rito collettivo localizzato ad Antiochia. Ad esso sembrano partecipare solo cinque persone qualificate come dottori e profeti. Anche se non possiamo escludere che gli Atti omettano di nominare altri partecipanti che però sono pensati presenti, il che implicherebbe una liturgia di ben più ampie proporzioni. Questa forma rituale sembra essere caratterizzata da due elementi: il pregare e il digiunare. L’elemento del digiuno conferisce una durata temporale particolare al rito e implica quindi anche una sua preparazione adeguata. Si deve infatti pensare che un digiuno, per essere chiamato tale, duri almeno un intero giorno. Ciò che è supposto culturalmente in questo rito è che lo Spirito santo possa manifestarsi ed entrare in contatto con gli esseri umani in seguito a preghiera e per giunta che ciò possa avvenire quando il corpo umano sia stato sottoposto ad un più o meno lungo digiuno. Sembra comprensibile, come hanno sostenuto molti, tra cui J.Pilch,[40] che il ricorso al digiuno sia praticato in quanto permette l’ottenimento dello stato di trance, il quale a sua volta permette l’attivazione di capacità particolari di percezione psichica. In questo caso, durante il rito di preghiera, ad un momento non precisato, ma che si capisce essere improvviso, lo Spirito santo si manifesta, non con un’apparizione – sembra - ma mediante un dire: «separate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati».

Terminato questo rito, gli Atti aggiungono: 

«Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono».

 

 Siccome il digiuno implica un periodo di tempo di almeno un giorno, dobbiamo ipotizzare che l’autore degli Atti stia pensando ad un secondo atto rituale complesso che forse non può che svolgersi nei giorni successivi.  Solo un’affrettata lettura puramente letteraria del testo può indurre il lettore a pensare che la scena si svolga immediatamente dopo e rapidamente. Anche questa seconda azione rituale è lunga: richiede infatti un digiuno. Essa consiste in una preghiera con funzione divinatoria, una decisione e l’imposizione delle mani su Barnaba e Saulo.

Sembra quindi che l’autore degli Atti degli Apostoli possieda un modello rituale, il quale corrisponde con tutta probabilità ad una precisa pratica di alcune comunità. Egli ci dice che il rito si svolgeva ad Antiochia, città che da altre fonti protocristiane sappiamo essere molto caratterizzata da fenomeni che potremmo definire forse profetici.[41] Secondo questo modello, la manifestazione dello Spirito santo è cercata intenzionalmente e accuratamente mediante riti collettivi preparati. Una prima conclusione che si impone è che le rivelazioni vengono cercate in relazione ad una decisione importante da compiere o ad una rilevante incertezza da superare.

Emerge da questo episodio che è un’élite di profeti e dottori (profêtai kai didaskaloi) che sembra presiedere sia ai modi per ottenere una conoscenza e una legittimazione soprannaturale sia alle decisioni che ne derivano. Ciò sembrerebbe riflettere una fase della storia delle comunità dei seguaci di Gesù in cui gli specialisti del contatto con il soprannaturale (chiamati genericamente dottori e profeti) detengono un ruolo fondamentale nelle decisioni e nel modo di prenderle. La domanda da porsi è se ciò caratterizzi una fase particolare della storia protocristiana o anche solo di alcune sue zone geografico-culturali. Ma non possiamo certo rispondere qui a questa domanda.

Esaminiamo adesso un terzo passo degli Atti degli Apostoli:

«[4.23] Appena rimessi in libertà, andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto i sommi sacerdoti e gli anziani. [24] All’udire ciò, tutti insieme levarono la loro voce a Dio dicendo: “Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, […] Ed ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua parola. [30] Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. [31] Quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (4,23-31).

Anche in questo caso siamo di fronte (a) ad una liturgia di preghiera, (b) di carattere collettivo, (c) che ha lo scopo di ottenere un intervento soprannaturale, e che (d) di fatto lo ottiene (il luogo trema e tutti ricevo lo Spirito Santo e possono annunciare la parola di Dio). La liturgia non si svolge in luogo deputato istituzionalmente alla preghiera.

Riassumiamo ora i dati che emergono da questi tre testi. 1. Anzitutto i passi di Atti 4,23-31; 10,1-16; 13,1-3 dimostrano che Luca aveva conoscenza di prassi rituali di preghiera individuale e collettiva che avevano per scopo un contatto con il soprannaturale (e che di fatto l’ottenevano), al fine di risovere questioni e prendere decisioni o compiere azioni di significato religioso rilevante in cui non si aveva né l’appoggio della tradizione religiosa giudaica, né quello di parole o prassi di Gesù; 2. In secondo luogo, abbiamo visto che Luca ha interpretato il battesimo di Gesù, la sua la trasfigurazione, la scelta dei dodici e diversi altri episodi della sua azione come forme di contatto col soprannaturale rese possibili tramite la pratica di un rito di preghiera; 3. ciò significa che Luca riteneva che esistesse una continuità di prassi rituale tra Gesù e le comunità dei suoi discepoli. Luca riteneva che anche Gesù avesse realmente praticato riti di preghiera per ottenere un rapporto speciale con il soprannaturale in vista di importanti decisioni. 4. La continuità tra la prassi rituale di preghiera di Gesù e quella delle comunità a lui successive sta nel fatto che la preghiera era rivolta - sia da Gesù sia dalle comunità dei suoi seguaci - a Dio, dal quale ci si attendeva intervento e rivelazione. 5. Ciò significa che la continuità tra le comunità protocristiane e Gesù sta nel fare ricorso a rivelazioni di Dio tramite riti di preghiera, più che nei contenuti delle rivelazioni ottenute o delle decisoni prese in base a rivelazione. 6. È l’obbedienza a rivelazioni di Dio ottenute nella preghiera che costituisce la continuità, non la ripetizione di norme e insegnamenti gesuani. 7. Ciò spiega che, nonostante la continuità con Gesù nella prassi rituale di preghiera, i suoi discepoli dopo la sua morte potessero innovare rispetto a lui e anche differenziarsi fra loro in base alle rivelazioni ricevute e alle decisioni prese in connessione ad esse.

 3.2. Lo scenario delle comunità paoline e giovanniste

a. Ci dovremmo ora domandare se simili pratiche rituali di preghiera esistevano anche altrove nelle comunità protocristiane e se queste pratiche derivassero da quelle che Gesù stesso aveva fatto proprie. La riposta a questa domanda richiederebbe tuttavia un’ampia indagine impossibile qui. Mi limiterò perciò solo ad alcuni brevissimi accenni riassumendo argomenti trattati da Adriana Destro e me in altre occasioni.

Come scrivevamo in un articolo pubblicato alcuni anni fa: «un fatto su cui esiste un consenso – ci sembra – molto vasto è che i fenomeni di rivelazioni, visioni, ascolti di voci, sogni, viaggi celesti, ecc. rappresentino una caratteristica del cosiddetto primo cristianesimo. Dai testi protocristiani, sia quelli che poi diventeranno canonici sia quelli che poi diventeranno apocrifi, questo dato emerge in modo impressionante.[42] […] esiste una continuità tra Gesù e la comunità dei suoi seguaci in queste pratiche culturali? Dobbiamo cercare di spiegare la loro apparizione nei gruppi di Gesù, subito dopo la sua morte, come assunzione di forme culturali dell’ambiente circostante che Gesù non aveva praticato o che in lui non erano centrali? Oppure dobbiamo ipotizzare che Gesù stesso  sia all’origine di questa prassi? Non è da escludere che quanto più si sviluppa nei gruppi dei seguaci di Gesù la convinzione che egli fosse un essere di tipo soprannaturale, appartenente alla sfera divina, tanto più potevano essere messe in ombra quelle esperienze di lui che invece presupponevano la chiara distanza tra lui e il mondo divino. Un essere divino non ha bisogno di rivelazioni, non ha bisogno di chiedere altrove conoscenza e potenza. Ne hanno bisogno gli uomini. La ricerca di rivelazioni, infatti, è dettata in genere dal bisogno umano di raggiungere l’ambito divino o soprannaturale dal quale ottenere sostegno, guida, protezione per la vita ordinaria. Uno dei problemi centrali per comprendere la nascita del cristianesimo è dunque quello della continuità o discontinuità tra Gesù e le comunità dei suoi seguaci dopo la sua morte. Il tema continuità/discontinuità è stato spesso studiato dal punto di vista degli elementi dottrinali. Noi vogliamo studiarlo invece dal punto di vista di precise «forme culturali» impiegate da Gesù e dai gruppi che a lui si ispirarono, cioè quelle che rendevano possibili dei contatti con la sfera della divinità così come era concepita nelle culture del I e del II secolo».[43]

b. Comincerò con Paolo. A differenza dell’autore del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, Paolo non descrive mai la pratica religiosa di Gesù e quindi non possiamo sapere se egli pensasse che le proprie pratiche di contatto con il soprannaturale fossero o no affini a quelle di Gesù. Sappiamo però che tutta la sua vita religiosa è stata determinata in modo assoluto da rivelazioni. Ciò che ha determinato il cambiamento fondamentale della sua vita e la sua adesione al movimento di Gesù è stata una rivelazione (Gal 1,1.12.16). Tutti i momenti decisivi della sua esperienza successiva sembrano determinati da rivelazioni. Certo, egli ha un contatto con quanto avviene nel resto dei gruppi dei seguaci di Gesù e ritiene normativo un certo numero di pratiche religiose e di dottrine che gli sono state tramandate da questi gruppi (1 Cor 15,3-5; 11,23). Certo, egli ha un contatto con la trasmissione delle parole di Gesù, come essa avveniva all’interno dei diversi gruppi di predicatori protocristiani.[44] Ma il centro della sua esperienza è determinata dal possesso dello Spirito santo, o dello Spirito di Cristo, e quindi da un’esperienza che potremmo definire latamente profetica, cioè centrata su rivelazioni. Anzi, egli considera che la certezza delle convizioni religiose vada ottenuta mediante un contatto con il mondo divino attraverso un insieme di pratiche che preferisco definire di «contatto con il soprannaturale».

Nelle comunità paoline, le pratiche di contatto con il soprannaturale sono molto diffuse ed è lo stesso Paolo che le considera essenziali e desidera che si diffondano. Secondo Paolo, tutti i battezzati hanno accesso allo spirito santo, alle rivelazioni di Gesù Cristo e di Dio. E’ anzi doveroso cercare di ottenere dei particolari carismi, cioè doni dello spirito (1 Cor 12, 31: “cercate i carismi più grandi”; 14, 39: “cercate la profezia”).[45] Si tratta di esperienze abbastanza differenziate.

Mi limiterò a riasumere solo tre soli aspetti. (a) Alcuni di questi fenomeni hanno carattere collettivo, rituale ed interno alle chiese. Esistevano pratiche religiose nelle quali i profeti potevano accedere alla conoscenza della volontà di Gesù, potevano ricevere rivelazioni da lui mediante lo Spirito (1 Cor 2,6-3,1; 1 Cor 12-14 e in particolare 1 Cor 14, 23-25; 29-33; 37-38; Fil 3,15),[46] (b) altre  pratiche sembrano riservate ad una cerchia particolare (1 Cor 2,6-16) anche se Paolo non dice chiaramente come e dove questa cerchia si riunisca, (c) altre infine sembrano avere una dimensione esclusivamente individuale e non liturgica: è il caso delle esperienze personali di Paolo (2 Cor 12, 1-4), ma forse anche di pratiche religiose individuali dei profeti paolini di cui però non abbiamo testimonianza testuale nelle lettere.

Fra le rivelazioni di carattere individuale, Paolo sostiene di avere avuto visioni e rivelazioni (2 Cor 12, 1) dal Gesù celeste.[47] Tra queste esperienze, egli annovera anche uno o forse due viaggi celesti, uno al terzo cielo e l’altro fino al paradiso. Potrebbe darsi che sia stato Cristo stesso, secondo Paolo, a trascinarlo al terzo cielo o al paradiso. Si conferma che il contatto con il Gesù celeste è fondamentale e costituisce probabilmente l’apice dell’esperienza di questo tipo di religione. Nel testo di 2 Cor 12,3-4, è interessante che Paolo, nella sua qualità di uomo che ascende al paradiso, sostenga di avere udito «parole ineffabili che non è lecito all’uomo pronunciare». Nel descrivere il proprio caso, Paolo, non sottolinea semplicemente di poter profetizzare o parlare in lingue, o comunque in modo ispirato, nell’assemblea, ma di custodire personalmente il senso di rivelazioni non comunicabili. Ciò significa che la finalità di queste rivelazioni individuali non è quello di costruire un sapere comune, o di fornire una base per l’istruzione dei membri della ekklêsia. Queste esperienze conferiscono al soggetto una qualità supplementare, quello del conoscitore delle cose segrete.[48] Le esperienze soprannaturali di 2 Cor 12, 1 ss, in conclusione, non rendono Paolo un messaggero. Le rivelazioni che lo costituiscono tale sono di un altro tipo (cfr. ad esempio Galati 1,12).

 Se confrontiamo il quadro paolino con quello gesuano ci sembra, in sostanza, che possano essere messi in rilievo alcuni elementi di continuità ed altri invece di discontinuità. Sia in Gesù sia in Paolo appaiono esperienze che hanno carattere e finalità solo individuale (il battesimo di Gesù e i viaggi celesti di Paolo) altre che hanno almeno alcuni aspetti di carattere esoterico ed iniziatico come l’episodio della trasfigurazione o come le esperienze di rivelazione dello Spirito tra Paolo e alcuni membri «perfetti» delle comunità paoline (1 Cor 2,6-3,4). Non appaiono invece in Gesù le scene di rivelazione profetica comunitaria e collettiva che sono parzialmente descritte in 1 Cor 12-14. Anzi il battesimo, le tentazioni e la trasfigurazione non hanno carattere profetico.

Sono proprio le esperienze di rivelazione dello Spirito di carattere iniziatico che hanno maggiore possibilità di connessione con le esperienze iniziatiche di Gesù. E tuttavia la pratica religiosa del viaggio celeste sembra molto apparentata in Paolo a quelle pratiche religiose simili che sono attestate nel suo tempo sia ambito ellenistico che in ambito romano (e non solo giudaico!).[49]

Per quanto riguarda il giovannismo, ripresento qui in sintesi i risultati di una precedente ricerca, mia solo a metà.[50] Il profetismo giovannista si basa su una trasmissione dello Spirito che viene percepito come fonte soprannaturale di una conoscenza totale, che va al di là sia della Sacra Scrittura sia delle stesse parole di Gesù. Ci sembra che, in Giovanni, emergano indizi che ci permettono di ipotizzare: (a) un contesto cultuale della esperienza del contatto con il divino; (b) un’esperienza (estatico-profetica) che si concreta nel viaggio celeste;[51] (c) una tecnica ermeneutica che sembra presupporre un’attività di scuola; (d) la produzione di un testo come espressione dell’attività profetica. Ci sembra che sia ipotizzabile una raffigurazione implicita di Gesù come profeta alla quale deve essere aggiunta ed integrata quella che emerge dai testi nei quali a Gesù è esplicitamente attribuito il titolo di profeta. L’ambiente giovannista, quindi, si concepisce in continuità con il profetismo di Gesù. Giovanni afferma esplicitamente che Gesù comunica la sua capacità profetica ai discepoli mediante la trasmissione dello spirito.[52]

Forse si potrebbe ipotizzare che nel giovannismo esista una evoluzione che vede tre fasi o livelli: Gesù, il discepolo amato, i cosiddetti “profeti” giovannisti. Mentre, nelle prime due fasi o livelli, la ricerca del divino si manifesta con il carattere della eccezionalità o della singolarità, nella terza il profetismo appare come esperienza di un insieme di discepoli, forse di tutti i membri del gruppo. Appare come un fenomeno di scuola che ha i suoi metodi ermeneutici, procedimenti analitici, applicati sia alle parole di Gesù, sia alla Scrittura (pur senza rinunciare all’esperienza soprannaturale profetica, cultuale o meno). A questo livello si manifesta peraltro una lotta interna al giovannismo tra una profezia che si pretende vera ed una che viene giudicata falsa.[53] Nel giovannismo ogni forma di vita religiosa deve consistere in un rapporto mistico-reale con Gesù tramite lo Spirito. Quindi tutte le attività cultuali del giovannismo debbono avere un rapporto essenziale con il Gesù risorto. Nel giovannismo, quindi, il profetismo sembra assumere una dimensione cristologica già presente, seppure in forma diversa, anche in Paolo.

4. Osservazioni conclusive

In queste pagine non mi sembra avere fatto di più che presentare un’ipotesi di ricerca e gli elementi che la possono giustificare e che meritano di essere posti al centro di una ricerca accurata.

Nel Vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli si fa luce un pattern di pratica religiosa centrato su riti di preghiera che hanno per scopo l’ottenimento di rivelazioni da parte di Dio o del suo Spirito. L’autore di queste due opere sembra convinto che anche Gesù praticasse questi riti e sembra presupporre una continuità fra le comunità protocristiane che egli conosceva e Gesù stesso proprio nell’esercizio di questa pratica religiosa. Esaminando la pratica di vita di Gesù, ad Adriana Destro e me[54] è sembrato che la collocazione interstiziale di Gesù e la sua condizione esistenziale di itinerante tendesse a provocare o a rendere possibile la creazione di forme religiose sostanzialmente estranee ai luoghi, ai tempi e alle forme religiose istituzionali di allora, e centrate invece sulla propria dimensione corporea e in luoghi e tempi marginali. Il suo progetto di radicale trasformazione religiosa della società ad opera del solo Dio,[55] tendeva a porre in atto azioni rituali che permettessero a Dio di manifestarsi. Gesù quindi cercava di svincolare ogni proprio atto rituale da qualsiasi catena di atti rituali che fosse espressione simbolica della società esistente la quale invece doveva essere profondamente trasformata dall’intervento di Dio. I riti di preghiera che tendono ad ottenere rivelazioni diventano un’esperienza fondamentale nella vita di Gesù e il primo cristianesimo. E’ in essi che il nuovo movimento elabora poco alla volta il proprio sistema simbolico, con il quale cerca di spiegare la sua nuova prassi e la nuova realtà sociale e individuale che sta creando. Nelle due opere lucane, nonostante la straordinaria attenzione alla continuità delle pratiche di preghiera, si fa luce uno spostamento, in Luca, dalla condizione interstiziale di Gesù ad un inserimento più normale nelle istituzioni religiose del giudaismo e verso una sensibilità che tende ad una religione civica e del tempio, secondo la terminologia di J.Z.Smith. Anche nelle lettere paoline emerge l’importanza fondamentale delle pratiche di contatto con il soprannaturale sia al livello individuale di Paolo sia  al livello comunitario. Ma le differenze sembrano anche molto forti. Nelle letteratura giovannista emerge la medesima continuità con Gesù, ma le pratiche di contatto con il soprannaturale sembrano assumere sempre di più un contenuto e una sostanza cristologica.

 


[1] How on Earth did Jesus Become a God? Historical Questions about Earliest Devotion to Jesus, Grand Rapids: Eerdmans, 2005; Lord Jesus Christ: Devotion to Jesus in Earliest Christianity. Grand Rapids: Eerdmans, 2003 (ora tradotto dalla editrice Paideia di Brescia: Signore Gesù Cristo, 2006; "Homage to the Historical Jesus and Early Christian Devotion", Journal for the Study of the Historical Jesus 1/2 (2003), Pp. 131-46; At the Origins of Christian Worship: The Context and Character of Earliest Christian Devotion (The 1999 Didsbury Lectures), Carlisle: Paternoster Press, 1999; Grand Rapids: Eerdmans, 2000; One God, One Lord: Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, Philadelphia: Fortress Press, 1988. British edition by SCM Press. Second edition, Edinburgh: T. & T. Clark, 1998 reprint edition, London: T&T Clark (Continuum), 2003. La lista dei suoi numerosi articoli sul tema è consultabile sulla home-page di Hurtado presso il sito web dell’Università di Edinburgo.

[2] Signore Gesù Cristo, p.53. Egli (One God, One Lord, 100-114) indica sei di questi atti rituali.

[3] Signore Gesù Cristo, pp. 66-67.

[4] Ivi, p. 76. Da qualche hanno Adriana Destro ed io abbiamo messo al centro dei nostri interessi lo studio delle esperienze religiose di Gesù (cfr. nota 6).

[5] Signore Gesù Cristo, p. 77.

[6] Si tratta soprattutto dei tre seguenti articoli di A. Destro e M. Pesce, “Il profetismo e la nascita di una religione: il caso del Giovannismo”, in: G.Filoramo (a cura di), Carisma profetico, fattore di innovazione religiosa, Brescia, Morcelliana, 2003, 87-106; “Continuità o discontinuità tra Gesù e i gruppi dei suoi seguaci nelle pratiche culturali di contatto con il soprannaturale?” in L.Padovese (a cura di), Atti del Atti de Nono Simposio Paolino. Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia / Storia / Religione, Roma, Pontificia Università Antoniano, 2006, 21-43; “La funzione delle parole. Rivelazioni dopo l'ascensione di Gesù", in L.Padovese (a cura di), Atti del Atti de Decimo Simposio Paolino, Roma, Pontificia Università Antoniano, 2007, 159-174.

[7] Bologna Zanichelli, 1970, decima edizione, p. 458.

[8] Sul rito, cf C.Bell Ritual Theory, Ritual Practice. New York / Oxford: Oxford University Press, 1992; S.J.Tambiah, Rituali e cultura, Bologna, Il Mulino, 1995, (or. am.: Culture, Thought, and Social Action. An Anthropological Perspective, Cambridge MA, Harvard University Press, 1985). Altra bibliografia in A. Destro,  Antropologia e Religioni. Brescia, Morcelliana, 2005.

[9] Cf. G. Filoramo, Che cos'è la religione : temi, metodi, problemi, Torino, Einaudi, 2004.

[10] Interpretazione di Culture, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 245-92. Per una critica a Geertz cfr. T.Asad , “The Construction of Religion as an Anthropological Category”, in Lambek M. (ed.) Anthropology of Religion. Oxford, Blackwell Publishing, 2002.

[11] Gesù aveva una capacità corporea taumaturgica che risiedeva nel suo corpo: Cf A.Destro - M.Pesce, L’uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita, Milano, Mondadori 2008, pp. 157-187.

[12] Relating Religion. Essays in the Study of Religion, University of Chicago Press, Chicago and London, 2004.

[13] Ovviamente, dal punto di vista metodologico si tratta di un pattern, un modello, uno schema euristico. Ogni modello serve solo per vedere meglio, non si identifica con la realtà storica, non sostituisce l’indagine storica né la fase etnografica dell’analisi antropologica. E' vero che la sociologia e l'antropologia, sebbene in forme abbastanza differenti, elaborano ed utilizzano «modelli» per l'interpretazione dei fenomeni, ma questi modelli non sono altro – almeno nella impostazione che io seguo - che degli schemi mentali euristici che servono a «vedere» meglio l'oggetto da studiare, non a trasformarlo in base a schemi astratti. L'antropologia ha posto al cuore del suo metodo una approfondita analisi dell'uso critico dei modelli e dei concetti antropologici, visto che il suo scopo è la ricostruzione dei sistemi concettuali cosiddetti emici, cioè caratteristici dell'oggetto particolare della sua ricerca. L'antropologia ha fatto del rispetto dell'identità particolare dell'«altro» lo scopo forse primario della sua indagine. Lo studio antropologico parte dalla consapevolezza della distanza e della diversità tra il ricercatore e il suo bagaglio concettuale da un lato e gli esseri umani studiati e il loro bagaglio concettuale dall’altro. D'altra parte agli occhi degli studiosi di storia delle religioni o di antropologia delle religioni sono proprio le opere di molti biblisti ad apparire dominate senza sufficiente autocritica da problematiche e schemi concettuali che sono tipici delle loro chiese di appartenenza in modo tale che i testi biblici e i relativi fenomeni vengono indebitamente assimilati alle chiese di oggi, alle loro teologie e alle loro problematiche, senza una adeguata consapevolezza della distanza e della differenza. La prospettiva metodologica di questo studio si basa, in ogni caso, sulla consapevolezza che indipendentemente dalle discipline adottate qualsiasi interprete, sia egli filologo, storico o antropologo, può conoscere l'oggetto della sua indagine solo a partire dal bagaglio concettuale suo proprio e perciò diverso da quello dell'oggetto studiato. E' lo studio filologico e storico stesso che deve permettere quel processo dialettico che produce una conoscenza che è in tanto possibile in quanto le categorie dell'interprete si aprono ad un confronto che alla fine le rende in grado di comprendere le categorie diverse, distanti e lontane, 'altre' appunto, dell'oggetto indagato. Lo studio che qui introduciamo parte quindi dalla consapevolezza che noi apparteniamo ad una cultura e a una società che sono profondamente separate e distanti dalle culture e società che si fanno luce nelle fonti protocristiane. La costruzione di reticoli concettuali consapevoli serve proprio allo scopo di neutralizzare i presupposti culturali inconsapevoli della nostra cultura di oggi.

[14] Sull’aspetto interstiziale del movimento di Gesù rimando Destro - Pesce, L’Uomo Gesù, 128-156.

[15] L’itineranza di Gesù ha la funzione di non legarlo a nessun luogo particolare e a nessuna funzione e forma sociale particolare permettendogli tuttavia di vivere continuamente all’interno dei nuclei domestici e degli ambiti lavorativi e in modo sconvolgerne la logica a causa della sua totale mancanza di reti sociali di interesse personale (cfr. Destro-Pesce, L’uomo Gesù, 42-58. 128-156.

[16] Questo è il caso non solo di Giovanni il Battezzatore e di Gesù, che non erano riconosciuti dai centri di potere, ma anche di Paolo che, almeno inizialmente, fa molta fatica ad essere accettato da chi detiene autorità a Gerusalemme nel movimento dopo la morte di Gesù.

[17] Relating Religion, pp. 329-330. D’altro canto, parentela e istituzioni religiose tendono sempre a risucchiare col tempo le forme interstiziali. Un altro schema interpretativo è quello offerto dalla distinzione tra comunità e società e la crisi di identificazione con le istituzioni (M.Pesce, “L’inevitabile rapporto tra religioni e potere: prospettive socio-antropologiche”, Ricerche Storico-Bibliche 18 (2006) 17-42).

[18] Ivi, 330.

[19] Ivi, 330-331.

[20] Non mi soffermo sul battesimo perché ne abbiamo parlato a lungo in: Destro-Pesce, “Continuità o discontinuità tra Gesù e i gruppi dei suoi seguaci nelle pratiche culturali”, vedi nota 6.

[21] Identificare dei rituali significa anche distinguerli, ma con «distinzioni relativamente contrastive (piuttosto che assolute)» (Tambiah, Rituali e cultura, 125).

[22] Kalinowski 2003.

[23] La divinazione nelle sue differenti forme ha lo scopo di identificare le cause degli eventi, soprattutto negativi. Essa esige di essere seguita da una serie di rituali tra i quali la preghiera e l’esorcismo che hanno lo scopo di eliminare le cause individuate.

[24] Una pratica rituale può essere definita esorcistica quando ha come scopo di neutralizzare un potere maligno. Le pratiche esorciste possono includere sia l’uso di talismani che il ricorso a riti sacrificali.

[25] A.Destro - M. Pesce, “The Levitical Sacrifices in Anthropological Perspective: The Case of the Ritual for a Leper (Lev. 14: 1-32)”, in Ph.Esler (Ed.), The Old Testament in its Social Context, Minneapolis, Ausburg Fortress, 2005, 66-77.; tr. it.: “I sacrifici levitici in prospettiva antropologica. Il caso del rituale per il lebbroso (Lev. 14,1-32), in Philip F. Esler, Israele Antico e scienze sociali, Brescia, Paideia, 2009, 86-99.

[26] M.Douglas, Leviticus as Literature, Oxford/New York, Oxford University Press, 1999.

[27] Esistono molte preghiere protocristiane, e sono state anche raccolte in utili antologie. Cf. Mark Kiley, Prayer From Alexander to Constantine. A Critical Anthology, Routledge, London, 1997; S. Pricoco - M. Simonetti, La preghiera dei cristiani (Scrittori greci e latini), Milano, 2000. Nella collezione di Kiley sono elencate le seguenti preghiere del primo cristianesimo: il Padrenostro (Q 11: 2b-4; Mt 6,9b-13; Lc 11,2b-4 Did 8,2); il Magnificat (Lc 1,46-55); la preghiera di Gv 17; At 4,24-30 (vedi soprattutto il v. 30: «Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù»); Fil 2,6-11. Nessuna di queste preghiere è rivolta a Cristo.

[28] Per i quali rimando a Destro-Pesce, “Continuità o discontinuità tra Gesù e i gruppi dei suoi seguaci nelle pratiche culturali”.

[29] Ivi, 328.

[30] Ivi, 329.

[31] Ivi, 329.

[32] Ad esempio i due sacrifici del mattino e della sera (Es 2,39.41; Num 28,4.8; Lev 6,2-6; Giuseppe, Ant. 14,65).

[33] «Mentre io stavo ancora parlando e pregavo e confessavo il mio peccato e quello del mio popolo Israele e presentavo la supplica al Signore Dio mio per il monte santo del mio Dio, mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me: era l’ora del sacrificio (thysia) della sera» (sulla connessione preghiera sacrificio cf anche Giuditta 9,1). Cfr. A.Loisy, Les Actes des Apôtres, Paris, Nourry, 1920, ad loc.; D.Marguerat, Les Actes des Apôtres  (1-12), Labor et Fides, Génève, 2007, 117. D.Hamm, «The Tamid Service in Luke-Acts: The Cultic Background Behind Luke’s Theology of Worship», Catholic Biblical Quarterly 65(2003), 215-231.

[34] Le varianti testuali del codice D e di altri manoscritti sono interessanti per il loro interesse all’ora della preghiera e alla relazione tra preghiera e digiuno.

[35] Les Actes des Apôtres, Paris, Les Belles lettres, 1982, 49. Cfr. anche Marguerat, Les Actes des Apôtres, 375 che ricorda Siracide 35,9. Marguerat, tuttavia, sottolinea di più la connessione con l’ora della preghiera giudaica piuttosto che con l’ora del sacrificio e il fatto che «dans le judaïsme du second temple s’est développée l’idée  que les prières et la charité, et même l’étude de la Torah, sont des sacrifices spirituels équivalents à ceux qui sont offerts au temple». Ora queste osservazioni corrono il pericolo di eludere la connessione culturale forte tra preghiera e sacrificio che invece è sottesa dal testo. Il testo non dice che le preghiere sostituiscono il sacrificio e lo spiritualizzano. Al contrario, senza sacrificio la preghiera fa parte ideale del culto sacrificale.

[36] Il fatto che la rivelazione avvenga ad un singolo e non in una liturgia collettiva non sembra fare alcun problema all’autore degli Atti.

[37] Il racconto degli Atti degli Apostoli implica da parte dell’autore una conoscenza e un’attenzione ai fenomeni di dislocamento, alterazione definiti ekstasis. Filone, Her. 69-70 connette la dislocazione con l’uscire da sé dei posseduti e dei coribanti, come nota L. Nasrallah, An Ecstasy of Folly. Prophecy and Authority in Early Christianity, Cambridge MA, Harvard Theological Studies, 2003, 38. Sull’estasi in Filone sullo sfondo e nella cultura greca, giudaica e protocristiana cfr. ivi, 36-44.

[38] Se un problema di conferma della validità o certezza della rivelazione si pone, esso è risolto mediante il meccanismo della convergenza di una pluralità di rivelazioni che si confermano le une con le altre: quella di Cornelio e quella di Pietro (ciò avviene negli Atti anche nel caso della visione concessa a Paolo, confermata da quella ad Anania).

[39] Cfr. Marguerat, Les Actes des Apôtres, 376-377; J.A.Fitzmyer, The Acts of the Apostles: A New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Bible), Doubleday, New York, 1998, 454. Diversamente Loisy, Les Actes des Apôtres, 435.

[40] J.Pilch, Visions and the Healing in the Acts of the Apostles. How the Early Believers Experienced God, Liturgical Press, Collegeville Minnesota, 2004.

[41] P. Bettiolo, A.Kossova, C.Leonardi, E.Norelli, L.Perrone (eds.), Ascensio Isaiae. 2 voll. (CCSA, 7-8), Brepols, Turnhout, 1995; E. Norelli, L’Ascensione di Isaia. Studi su un apocrifo al crocevia dei cristianesimi (Origini, Nuova Serie 2), EDB, Bologna, 1995; A.Destro - M.Pesce, “Plurality of Christian Groups at Antioch in the First Century: The Constellations of Texts”, in L.Padovese (a cura di), Atti dell’Ottavo Simposio Paolino, Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia / Storia / Religione, Roma, Pontificio Ateneo Antoniano, 2004, 139-156.

[42] D. Aune., La profezia nel primo cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2003 (orig. ingl. 1983);

J.D.G Dunn, Jesus and the Spirit. A Study of the Religious and Charismatic Experiences of Jesus and the First Christians as Reflected in  the New Testament, SCM, London, 1975; G.Filoramo, Veggenti Profeti Gnostici. Identità e conflitti nel cristianesimo antico, Brescia, Morcelliana, 2005; J. Pilch, “Visions in Revelation and alternate Consciousness: A Perspective from Cultural Anthropology”, Listening: Journal of religion and Culture 28 (1993) pp. 31-44; Id.,  “Altered States of consciousness Events in the Synoptics”, in B. J.Malina, W.Stegemann, G. Theissen (eds.), The Social Setting of Jesus and the Gospels, Fortress Press, Minneapolis, 2002, pp. 103-115;  “The Transfiguration of Jesus: An experience of Alternate Reality”, in Ph.Esler (ed.), Modelling Early Christianity: Solcial-scientific Sudies of the New Testament in its Context, Routledge, London and New York, 1994, 47-64.

[43] A. Destro e M. Pesce, “Continuità o discontinuità tra Gesù e i gruppi dei suoi seguaci nelle pratiche culturali di contatto con il soprannaturale?” in L.Padovese (a cura di), Atti del Atti de Nono Simposio Paolino. Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia / Storia / Religione, Roma, Pontificia Università Antoniano, 2006, 21.

[44] Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 2004, 4-23. 499-527.

[45] La grande importanza dei fenomeni rivelativi nelle comunità paoline si mostra anche nello sviluppo di una terminologia molto articolata e specializzata per descriverli. Paolo distingue varie forme di rivelazioni: apocalissi, conoscenza, profezia, insegnamento, glossolalia (cfr. 1 Cor 14, 6 ma anche 1 Cor 12, 4-11). Cf anche M.Pesce, Le due fasi della predicazione di Paolo, 000-000.

[46] Cfr. E.Boring, Sayings of the Risen Jesus. Christian Prophecy in the Synoptic Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1982; M. Pesce, “L'apostolo di fronte alla crescita pneumatica dei Corinzi (1 Cor 12-14). Tentativo di analisi storica della funzione apostolica”, Cristianesimo nella storia 3(1982)1-39; Id., “La profezia cristiana come anticipazione del giudizio escatologico in 1 Cor 14,24-25”, in: Testimonium Christi. Scritti in onore di Jacques Dupont, Brescia Paideia, 1985, 379-438, ora in: Le due fasi della predicazione di Paolo. Dall'evangelizzazione alla guida delle comunità, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1994.

[47] A. Destro - M.Pesce, “Le voyage céleste.Tradition d’un genre ou un schema culturel en contexte?” in: N.Belayche - J.-D. Dubois (eds.), Cohabitations et Contacts, Paris, Cerf, 2009, pp. 000-000.

[48] Si potrebbe paragonare questa condizione a ciò che emerge nel soggetto abitato da uno spirito nelle situazioni di possessione. Quest’ultimo, al suo «ritorno» (che è un aspetto sicuramente molto importante dell’esperienza) non è libero di trasmettere quello che sa, se non forse in specifici casi. Si costruisce una sorta di solitudine di chi ha fatto il viaggio celeste o di chi è abitato dallo spirito, che non consiste in una situazione di privazione o di immobilità.

[49] Cfr. Filone Cicerone Seneca, Plutarco, Luciano; A.F. Segal, « Heavenly Ascent in Hellenistic Judaism, Early Christianity and their Environment », ANRW II 23.2, Berlin, de Gruyter, 1980, pp. 1333-1394, qui p. 1388. Di Segal, vedi anche : “Paul and Ecstasy”, Society of Bibical Literature 1996 Seminar Papers, Atlanta Georgia, Scholars Press, 1996, 555-580 ; Destro-Pesce, “Le voyage céleste”.

[50] A. Destro - M.Pesce, “Il profetismo e la nascita di una religione: il caso del Giovannismo”, in: G.Filoramo (a cura di), Carisma profetico, fattore di innovazione religiosa, Brescia, Morcelliana, pp. 87-106.

[51] M.Pesce, “Isaia disse queste cose perché vide la sua gloria e parlò di lui (Gv 12,41): Il Vangelo di Giovanni e l’Ascensione di Isaia”, Studia Patavina 50 (2003) pp. 649-666.

[52] A. Destro - M.Pesce, Come nasce una religione. Antropologia e esegesi del Vangelo di Giovanni, Bari-Roma, Laterza, 2000, pp. 000-000.

[53] Accanto ai profeti, appaiono anche “pseudo-profeti” (cfr. 1 Gv 4,1-3), il che significa che l’esigenza di rifarsi a rivelazioni profetiche, da parte dei diversi gruppi giovannisti in lotta fra loro, porta alla conseguenza di accusare di falsa profezia i profeti avversari. In questa terza fase o livello, il profetismo giovannista crea soprattutto un testo dotato di autorità. E’ il testo che, per molti versi, delimita il gruppo giovannista, lo giustifica e lo fonda.

[54] Su tutto questo rimando ancora una volta a Destro-Pesce, L’uomo Gesù.

[55] Ivi, p.58.